Corriere della Sera - La Lettura
Anche dimenticare è un disastro
è nato nell’area della centrale, ha famigliari e amici investiti dalle conseguenze del sisma e della contaminazione. «Dolore immane ma l’empatia con le vittime è durata solo fino al 2014»
L’11 marzo 2011 Furukawa Hideo, uno dei più brillanti autori della scena letteraria giapponese, era a Kyoto per raccogliere materiale per il nuovo romanzo. «Avrei dovuto restarci alcuni giorni. La centrale di Fukushima Daiichi distava 230 chilometri da casa mia, a Tokyo, ma io mi trovavo a 360 chilometri dalla capitale, e il terremoto non lo sentii quasi per niente. Circa due ore dopo lessi un titolo a caratteri cubitali sulla prima pagina dell’edizione straordinaria di un giornale: “Imponente tsunami sulle coste del Tohoku”». La circolazione dei treni fu subito sospesa e Furukawa rimase per tutta la notte in albergo «incollato davanti alla televisione».
Il mattino dopo, ripristinata la circolazione ferroviaria, «salii a bordo del primo shinkansen e tornai a casa. A Tokyo la terra aveva tremato parecchio e nell’appartamento trovai gli oggetti sparpagliati sul pavimento. Anche il televisore era caduto ma lo rimisi a posto e riuscii ad accenderlo. Sullo schermo campeggiava la scritta: “Esploso il reattore nucleare della centrale di Fukushima Daiichi”. Fu uno choc, sentii le lacrime che mi scorrevano giù per le guance e non volevano più fermarsi».
E nei giorni successivi?
«Cominciai a provare una grande rabbia. Ma lasciarsi prendere solo dalla disperazione non aveva senso e sono andato a Fukushima a vedere. Da quell’esperienza è nato un romanzo (“Cavalli, alla fine la luce rimane pura”), pubblicato a luglio 2011. Uno scrittore non può fare altro che raccontare, è la nostra missione».
Fino ad allora qual era il suo atteggiamento verso il rischio sismico e la violenza della natura?
«Fin da bambini ci sentiamo dire: “Ci sarà un grande terremoto, è solo questione di tempo”. La consapevolezza della violenza della natura fa parte del nostro Dna. Noi giapponesi, forse più di altri, conviviamo con la certezza che la stabilità del quotidiano possa essere interrotta da un momento all’altro da un disastro naturale».
Il terremoto, lo tsunami o il disastro nucleare hanno coinvolto direttamente la sua famiglia...
«I miei sono di Fukushima e si occupano della coltivazione di funghi shiitake, mio padre ha passato il testimone a mio fratello maggiore. I funghi sono tra i prodotti che assorbono maggiormente le sostanze radioattive perciò, da dopo il disastro, la mia famiglia affronta
«È fondamentale non fossilizzarsi sulle proprie posizioni. Questo non significa essere sinceri e onesti, la sincerità e l’onestà consistono semmai nella capacità di adattarsi, reagire e cambiare. Dal disastro di Fukushima certe cose sono cambiate, sono venute a galla alcune verità, ma non basta… Bisogna continuare a cambiare, tutti, per non dimenticare, per poter andare avanti».
Dopo quell’emergenza, lei è cambiato?
«Dopo il grande terremoto e lo tsunami del 2011 mi sono chiesto: “Sei in grado di essere veramente vicino alle persone che soffrono?”. E allora ho cominciato a pensare di voler almeno provare a sentire quel grande dolore anche se non mi apparteneva direttamente. Così, a poco a poco sono cambiato e ho iniziato a capire cosa significhi essere in comunione con gli altri».
E la società giapponese nel suo complesso?
«All’inizio la società ha mostrato questa stessa empatia, più o meno fino al 2014, poi tutto è tornato come prima e l’indifferenza ha ripreso il sopravvento».
Il mondo politico ed economico del Giappone ha tratto una lezione utile da Fukushima?
«Sì, indubbiamente il Giappone ha imparato molto da Fukushima, sia dal punto di vista economico che da quello politico, ma occorre sfruttare al meglio quella lezione, anche se poi molto dipende dalla situazione economica globale. Se l’economia mondiale dovesse entrare in una fase di crisi profonda, è chiaro che tutti gli sforzi del Giappone nel post-Fukushima sarebbero vani. Purtroppo, a causa della pandemia grava un po’ ovun