Corriere della Sera - La Lettura

Ma ricordare resta insopporta­bile

- Di ANNACHIARA SACCHI

ha dedicato la scena cruciale del nuovo libro al terremoto di Kobe: 6.434 morti nel 1995. «Ho scoperto che i sopravviss­uti tendono a rimuovere: è un meccanismo di autodifesa»

a città, i suoi abitanti e il cielo erano in fiamme. Si ritrovò davanti alla sopraeleva­ta. Era crollata. Un’enorme balena spiaggiata sull’asfalto». Terremoto di Kobe, 17 gennaio 1995. È un momento cruciale nel nuovo romanzo di Kawamura Genki, Non dimenticar­e i fiori (Einaudi). Ed è lo spunto per parlare con l’autore — famoso per il suo esordio, Se i gatti scompariss­ero dal mondo — di memoria, di ricordi condivisi e di una certa «rassegnazi­one» giapponese nei confronti dei disastri, naturali e non. Della possibilit­à di metabolizz­are un trauma parlandone. Oppure cancelland­olo.

Dov’era nel 2011 quando la terra tremò, quando le onde si alzarono fino a dieci metri, quando i reattori della centrale di Fukushima esplosero?

«A Tokyo. Stavo lavorando».

In quel preciso istante?

«Ho avvertito una forte scossa, il treno si è fermato. Sono tornato a casa a piedi».

Che sensazioni ha provato?

«Sentivo la fine vicina, imminente. Pensavo che non sarebbe stato strano se fossi morto. E ho iniziato a immaginare la mia famiglia in un mondo senza di me. L’esperienza di quel momento è stata l’ispirazion­e per scrivere il mio romanzo d’esordio, la storia di un uomo che sa di avere poco tempo da vivere e stipula un patto che gli allunghi la vita di un giorno in cambio della sparizione di qualcosa dalla faccia della Terra. Questo spunto è nato dall’immaginare “cosa succedereb­be se morissi all’improvviso”».

Qualche suo parente o amico è rimasto coinvolto nel sisma?

«Fortunatam­ente no».

Come è cambiato il suo Paese dopo la tragedia del 2011?

«Penso sia aumentata la consapevol­ezza sulla prevenzion­e dei disastri naturali. Allo stesso tempo, dato che il Giappone è periodicam­ente soggetto a terremoti, ho l’impression­e che ci sia, da parte nostra, una sorta di rassegnazi­one nei confronti di fenomeni sismici e tsunami a cui non ci si può opporre».

In Giappone si parla di quello che successe dieci anni fa?

«Mentre raccogliev­o testimonia­nze delle vittime di Kobe, mi resi conto, con sorpresa, che queste stavano scordando la loro esperienza del terremoto».

Ne stavano perdendo memoria?

«Nonostante dimenticar­e sia un processo crudele, ho iniziato a pensare che in qualche modo potesse essere un meccanismo di autodifesa. Il tema della rimozione del terremoto si è ricollegat­o allora a un episodio della mia vita, quando mia nonna, malata di Alzheimer, non mi riconobbe. Così è nato il mio secondo romanzo».

Come ha reagito la comunità culturale giapponese al disastro dell’11 marzo 2011?

«Tanto nel mondo letterario quanto in quello del cinema sono nati dibattiti e iniziative. Alcuni autori hanno realizzato opere sul tema. Io, invece, almeno all’inizio, ero restio a scriverne. Con Non dimenticar­e i fiori ho finalmente affrontato il terremoto».

Un Paese come il suo, che nel XX secolo ha vissuto il dramma dell’atomica, nel XXI ha ricevuto un’altra dura lezione sui rischi del nucleare. Crede che alla luce di quello che è successo il Giappone abbia sviluppato una nuova sensibilit­à sui temi dell’ambiente?

«Su questo argomento ci sono tante opinioni, seguo attentamen­te la discussion­e. Una cosa è chiara: incidenti e terremoti possono accadere ovunque, non solo in Giappone. Credo che tutto dipenda dal tipo di conclusion­e che l’umanità saprà trarre in merito a certi temi, trovando una sua collocazio­ne nel conflitto tra bisogni e terrore. Penso che il mio lavoro sia trasmetter­e questo messaggio attraverso le storie, senza parlarne direttamen­te».

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