Corriere della Sera - La Lettura
La sciamana glocal dell’Africa
«La Mère è tornata». Il destino di Germaine Acogny, «la madre della danza contemporanea africana», era già annunciato in un foglietto affisso alla porta dei genitori, il giorno della sua nascita, dagli abitanti del villaggio. La Mère cui alludeva il pezzetto di carta era la nonna paterna di Acogny, Aloopho, sacerdotessa dei riti vudù degli Yoruba, spirata nella gloria locale alcuni anni prima. Gioco forza diventare una sciamana glocal per la nipote Germaine, oggi incoronata Leone d’Oro (per la prima volta un Leone d’Oro a un coreografo nero, per la prima volta una coreografa contemporanea africana) dalla Biennale Danza di Venezia diretta dall’inglese Wayne McGregor.
Franco-senegalese, statuaria, il cranio rasato che rende ancora più possenti i suoi 76 invisibili anni, Acogny è un monumento danzante dell’orgoglio nero: ballerina, coreografa, grandissima pedagoga. Dopo avere studiato danza a Parigi e a New York, la carismatica signora è tornata nel suo Paese dove ha diretto dal 1977 all’82 Mudra-Afrique, costola «nera» della leggendaria Scuola Mudra di Bruxelles, fondata a Dakar da Maurice Béjart per volontà dell’illuminato presidente senagalese Léopold Sédar Sénghor, leader-poeta che, per il proprio Paese, sognava un Parnaso delle arti sul modello dell’Antica Grecia. Terminata quell’avventura, Acogny ha insegnato nella casa-madre del Mudra di Béjart a Bruxelles, nel 2004 ha fondato insieme al secondo marito Helmut Vogt, tedesco e bianco, l’École des Sables, in cui ha trasformato in realtà l’utopia di un grande villaggio della danza per le genti d’Africa (e non solo) a 50 chilometri da Dakar. Un percorso artistico unico che le è valso il Bessie Awards nel 2018 a New York, una serie di «cavalierati» e, ora, il Leone d’Oro: «Acogny crede nel potere della danza di cambiare la vita delle persone e si è sempre impegnata a condividere la sua passione come atto di trasformazione e rigenerazione», dice la motivazione.
Riceverà il Leone il 24 luglio a Venezia, dove, il 23, danzerà in prima italiana l’autobiografico Somewhere at the beginning, assolo da lei coreografato con il figlio Patrick e diretto dal regista francese Mikael Serre. «Il Leone è un turbine di luce in questo momento — dice a “la Lettura” Acogny, in collegamento Zoom dal Senegal —. Anche se non registriamo casi di Covid, i problemi economici qui sono forse peggio: all’École des Sables sono stati annullati gli spettacoli e le residenze che ci portavano denaro. Ma sono tutt’altro che disperata. Resterò nella luce affinché chi mi segue, anche grazie a questo premio, si senta sollevato e continui a lottare per le arti, soprattutto per la danza, l’arte più povera e meno aiutata».
Lei aveva lasciato la direzione dell’École des Sables a suo figlio Patrick. Oggi non è più direttore. Come trasmette il suo metodo didattico?
«Patrick è già partito per nuovi orizzonti. Ora ci sono due giovani alla direzione, Alesandra Seutin e Wesley Ruzibiza: in questo anno di sospensione abbiamo lavorato con loro. Stiamo immaginando il futuro della Scuola. Intanto, abbiamo messo online la tecnica Acogny, il cui fondamento rispecchia l’immagine del Fromager, un enorme albero dalle radici profonde che si innalza verso il cielo, risplendendo. Quando un corpo è ben radicato ed eretto sulla propria colonna vertebrale, la persona non può non sapere da dove arriva e dove potrà andare: prende fiducia in sé stessa, restando in contatto con la propria intimità. È la vita che me l’ha insegnato: grazie a incontri importanti, attraverso l’osservazione della natura. Le danze tradizionali africane sono in relazione con il cosmo: ho tratto ispirazione guardando gli alberi, gli ucza»,
Primo Leone d’Oro nero per la danza, primo Leone d’Oro alla coreografia contemporanea del continente: Germaine Acogny, francosenegalese, 76 (invisibili) anni, è già una leggenda. «Io sono la reincarnazione di mia nonna, sacerdotessa dei riti vudù, devo tutto a lei»
celli, gli animali, tutto ciò che era intorno a me. Ho osservato la vita».
Le radici, gli antenati. Riconosce nel suo lavoro l’eredità spirituale di sua nonna Aloopho, la cui figura è centrale nell’assolo «Somewhere at the beginning»? C’è un legame tra religione animista e danza?
«Mia nonna era un’animista, una vuduista, una sacerdotessa-ballerina che partorì mio padre a più di sessant’anni. Nella sua religione, i “poteri” si trasmettono di solito da donna a donna, ma lei li ha passati a lui, affinché li comunicasse a me quando fossi nata. Anche se mio padre non mi ha trasmesso il sapere esoterico, attraverso di lui mia nonna mi ha ispirato la mia tecnica di danza. Io sono la reincarnazione di mia nonna».
Nello spettacolo, c’è anche il senso dell’accettazione del destino? Della relazione tra la solitudine individuale e il dialogo con il mondo?
«Un astrologo mi ha detto, guardando il mio cielo natale: “Un giorno farai qualcosa, in campo pedagogico, che sarà conosciuto nel mondo”. Qualcun altro, che sapeva interpretare i segni sulla sabbia, ha aggiunto: “Un luogo, vicino all’acqua, ti apparterrà”. Alcuni sostengono che il destino è scritto e si avvera se noi ci applichiamo a realizzarlo in dialogo con l’aldilà. Io mi sono rimboccata le maniche per costruire, con mio marito, l’École des Sables: è un lavoro permanente di gioia, pianto, angoscia, per riunire danzatori da tutta l’Africa, francofona e anglofona. Qualcosa che i politici non sono ancora riusciti a fare. Ho lavorato duro, ho fatto ricerche, ho imparato danze dell’Africa dell’Est, ho studiato danza classica e contemporanea, la tecnica Graham, Limón. Alla fine, ho fatto una sintesi. Per me il dialogo con il mondo è il viaggio, l’incontro. Adoro danzare. Ogni giorno, quando sono all’École des Sables, cammino nell’oceano e faccio meditazione davanti all’immensità del mare. Prego e medito».
Il potere della danza e il potere della donna. Lei si è ribellata al suo primo marito che voleva imporle in casa una seconda donna...
«In Africa c’è la poligamia, ma io non l’ho accettata. Ho voluto prendere in mano il mio destino e crescere da sola i due figli, Patrick che ama la danza, e mia figlia che lavora come traduttrice all’Onu a New York. Sono fiera di me. Ci sono donne africane che non hanno un mestiere e non sono intellettuali ma che, nonostante questo, lasciano il marito, trovano un lavoro, crescono i figli. Oggi la situazione delle donne in Senegal è migliorata, si difendono, il diritto di famiglia prevede che la donna possa dare la propria nazionalità al marito. È stato in Francia che ho scoperto l’esistenza di case per donne vittime di violenza. Le donne qui si difendono. In Africa c’è il matriarcato. In casa di mio padre, era la madre che comandava: gli aveva detto di non convertirsi al cattolicesimo, ma lui non l’ha ascoltata ed è finito dall’analista con grossi problemi psicologici. Gli africani sono ferventi credenti, perciò musulmani e cristiani sono riusciti a convertirli facilmente. Ma nella religione animista, Dio è talmente alto che ci vuole molto per elevarsi».
Il regista Mikael Serre ha visto un legame tra Medea e la sua storia personale...
«Mi ha letto la tragedia greca: il mito di Medea, nipote della maga Circe e costretta all’esilio, perché il marito sceglie una donna più giovane. Sembrava la storia di molte donne senegalesi e la mia. Le cose si ripetono, nella tragedia greca come in quella africana. In ogni famiglia c’è una tragedia».
Che fine hanno fatto i coltelli sacrificali di Aloopho, di cui parla nello spettacolo?
«Erano grandi coltelli in rame, con alcuni simboli incisi. Non erano coltelli taglienti: li vedevo sempre da bambina a casa di mio padre, ne ero affascinata e chiedevo se fossero miei. No, mi rispondeva lui. Un giorno, facendo ricerche all’università, ho trovato un testo, scritto da mio padre, in cui affermava che il potere si trasmette da donna a donna. Quando mio padre è morto, ho inviato l’articolo con il disegno dei coltelli ai miei fratelli, reclamandoli. Mio fratello minore li ha ritrovati e me li ha portati il giorno di Natale di dieci anni fa. Ora li custodisco io».