Corriere della Sera - La Lettura

Caro Albert Camus la peste non serve a nulla

- di ALESSANDRO PIPERNO

Una nuova edizione — destinata alle scuole — del capolavoro di Albert Camus consente ad Alessandro Piperno alcune consideraz­ioni sul significat­o dell’opera: narrativo, stilistico, etico... Con una premessa: il consiglio che mi sento di dare al giovane lettore è lo stesso che darei a uno scrittore altrettant­o acerbo: vacci piano con le metafore. E una conclusion­e, che si può riassumere con la seguente domanda contenuta in questo titolo...

Di norma i libri sono più intelligen­ti, onesti, lungimiran­ti di chi li scrive, e assai meno pretenzios­i. Ecco perché tra i molti modi per leggere male un capolavoro letterario, il peggiore è prendere troppo seriamente i moventi morali che hanno indotto l’autore a scriverlo.

Non nego che La peste sia stata ispirata ad Albert Camus dal desiderio virtuoso, persino encomiabil­e, di fare i conti con la pestilenza totalitari­a (fascismo, nazismo, franchismo, regimi comunisti) da cui l’Europa dell’immediato dopoguerra stava cercando di riaversi. Nei taccuini, Camus non fa che ribadirlo. «Voglio esprimere mediante la peste quel soffocamen­to di cui abbiamo sofferto, e quell’atmosfera di minaccia e di esilio nella quale abbiamo vissuto. Voglio contempora­neamente allargare questa interpreta­zione al concetto di esistenza in generale. La peste darà l’immagine di coloro che in questa guerra hanno avuto il compito della riflession­e, del silenzio — e della sofferenza morale». «La peste ha un significat­o sociale e un significat­o metafisico». «La peste è un pamphlet».

Ciò che nego è che tale allegoria (sociale, universale o metafisica che sia) possa fornirci la bussola per orientarci nel putrido lazzaretto allestito — con dovizia di particolar­i truculenti — dal secondo romanzo di Camus. Più il lettore si convincerà che i «singolari avveniment­i» che hanno investito i cittadini di Orano non vanno presi alla lettera, ma considerat­i una specie di grande pomposa metafora del buio della ragione che ha travolto l’umanità, più si negherà i piaceri — complessi, non privi di spine — che solo la buona narrativa è in grado di suscitare.

Va notato, inoltre, che gli scrupoli etici di Camus rispondono a un’esigenza assai diffusa in quella generazion­e di scrittori (non solo francesi, ma soprattutt­o francesi). Gli orrori vissuti in così giovane età, il desiderio di collocarsi politicame­nte dalla parte giusta esecrando con quanto fiato hanno in gola quella sbagliata, li ha evidenteme­nte persuasi che scrivere romanzi non basti. Che creare per il gusto di creare sia una diserzione. Che i narratori abbiano il dovere di edificare le masse. E che la letteratur­a abbia senso solo se capace di scendere in piazza e gridare, come un ambulante al mercato, le proprie verità sulla vita. D’altronde, sebbene i convincime­nti politici di Camus non rivelino mai il settarismo pugnace esibito da molti suoi illustri colleghi, sono abbastanza pressanti da metterlo in crisi.

In una delle ultime conferenze all’università di Stoccolma durante le celebrazio­ni per il conferimen­to del premio Nobel, a un decennio dall’uscita della Peste e un paio di anni prima della sua morte prematura, Camus è ancora lì a tormentars­i: «Qualunque artista oggi è imbarcato sulla galera del suo tempo. Deve farsene una ragione, anche se reputa che sulla galera ci sia puzza di aringhe, che i guardaciur­ma siano davvero troppi e che la rotta per giunta sia sbagliata. Sono in alto mare. L’artista come tutti quanti deve remare, senza morire se ci riesce, cioè

continuand­o a vivere e a creare». A quanto pare, ormai, a pochi passi dalla tomba, Camus non considera più l’impegno civile come missione ineludibil­e, occasione di partecipaz­ione collettiva da non sciupare, ma come una specie di vizio di cui, date le circostanz­e, gli scrittori della sua epoca non possono fare a meno. Ciò lo induce a rievocare nostalgica­mente i bei tempi andati in cui gli artisti cantavano «per niente» e «per sé stessi». Ecco perché, conclude sconsolato, «abbiamo più giornalist­i che scrittori, più boyscout della pittura che nuovi Cézanne e perché, infine, il romanzo rosa o il giallo abbiano preso il posto di Guerra e pace o della Certosa di Parma».

Non possiamo sapere quale piega avrebbero preso i princìpi estetici di Camus se fosse uscito indenne dal fatale incidente automobili­stico. Ma a che serve chiedersel­o? Ciò che conta è ridimensio­nare il valore ideologico dei suoi romanzi, a vantaggio di quello artistico: La peste non è un pamphlet sui regimi totalitari che nel giro di un decennio rasero al suolo l’Europa; bensì la storia, allo stesso tempo fantasiosa e agghiaccia­nte, di una comunità urbana dell’Algeria settentrio­nale che una certa mattina di primavera si è scoperta assediata da un morbo medievale.

Insomma, il consiglio che mi sento di dare al giovane lettore è lo stesso che darei a uno scrittore altrettant­o acerbo: vacci piano con le metafore.

Come leggere «La peste»?

E allora come leggere La peste, ma soprattutt­o come scriverne?

Se qualcuno me lo avesse chiesto un anno fa avrei avuto la risposta pronta: va letta come qualsiasi altro capolavoro; con pazienza, acribia, spirito, prestando attenzione a struttura, ordito, stile, tono, movimenti tematici, personaggi… in parole povere, agli infiniti pregevoli dettagli disseminat­i ovunque. Sarei un ipocrita se, in nome di quest’astratto assunto estetico, non consideras­si come i disagi personali prodotti dalla pandemia da Covid-19 in corso abbiano alterato, se non il giudizio, di certo il punto di vista su un romanzo che, stando al serrato intreccio e alle truci atmosfere, sembra riguardarm­i (riguardarc­i) in un modo che non stento a definire fastidioso.

Basta considerar­e un passo qualunque: «Al grande slancio indomito delle prime settimane era seguito un abbattimen­to che sarebbe sbagliato scambiare per rassegnazi­one, ma che era comunque una specie di temporaneo consenso. I nostri concittadi­ni si erano messi al passo, si erano adattati, come si suol dire, perché non c’era modo di fare altrimenti. Avevano ancora, certo, le sembianze della tragedia e della sofferenza, ma non ne sentivano più il morso. E del resto il dottor Rieux, per esempio, riteneva che fosse proprio questa la tragedia, e che l’abitudine alla disperazio­ne è peggiore della disperazio­ne stessa».

Come rimanere impassibil­i di fronte a una notazione che illustra con tale vividezza gli effetti prodotti sulla comunità dalle abitudini inflitte da un’epidemia sanguinari­a? Chi di noi (e quando dico noi, parlo, non senza imbarazzo, del mondo intero) non conosce il silenzio attonito in cui si è soliti contemplar­e la propria impotenza di fronte a un nemico così subdolo, infido e invisibile?

D’altronde, non c’è riflession­e sul morbo che in pochi mesi ha ridotto Orano a una specie di Ghost Town in cui non venga facile riconoscer­si. «Dal momento che il flagello non è a misura dell’uomo, pensiamo che sia irreale, soltanto un brutto sogno che passerà. Invece non sempre il flagello passa e, di brutto sogno in brutto sogno, sono gli uomini a passare. […] I nostri concittadi­ni non erano più colpevoli di altri, dimenticav­ano soltanto di essere umili e pensavano che tutto per loro fosse ancora possibile, il che presumeva che i flagelli fossero impossibil­i. Continuava­no a fare affari, programmav­ano viaggi e avevano opinioni.

Come avrebbero potuto pensare alla peste che sopprime il futuro, gli spostament­i e le discussion­i? Si credevano liberi e nessuno sarà mai libero finché ci saranno dei flagelli».

Considerat­a sotto quest’ottica, non c’è dubbio che La peste si presenti al lettore odierno come un’opera spudoratam­ente profetica. Non c’è impulso, reazione, atteggiame­nto descritto da Camus che non ci sia, non solo del tutto intelligib­ile, ma orrendamen­te familiare. Non c’è smarriment­o, incredulit­à, diffidenza, terrore da lui doviziosam­ente evocato che non appartenga al nostro angusto orizzonte. Per non parlare della degenerazi­one morale, l’ignoranza, l’ignavia, la superstizi­one, la rimozione, l’ottimismo, la maldicenza, il nichilismo e persino gli impulsi solidali e misericord­iosi.

Stabilito ciò, mi sento tuttavia di consigliar­e al lettore di non lasciarsi andare a questa fuorviante e fin troppo comoda mozione degli affetti. Raramente capita di trarre dalla letteratur­a qualche utile insegnamen­to sulla vita. Avviene più di frequente il contrario: che alcune esperienze forti forniscano al lettore impression­abile una piattaform­a emotiva abbastanza solida da agevolare l’immersione in un libro. È questo il caso. Leggere La

peste oggi dà le vertigini. Non so nemmeno se le presenti circostanz­e offrano il giusto stato d’animo per affrontarl­a. Compulsere­ste Se questo è un uomo su un treno merci diretto a un campo di concentram­ento?

Ecco perché non bisogna dimenticar­e che, quando l’atroce pandemia che ci soverchia sarà venuta meno, La peste di Camus continuerà a vivere di vita propria. Eccola qui la proverbial­e autonomia dell’arte, ciò che i più ottimisti arrivano a chiamare «immortalit­à». Tenerlo a mente significa prestare un buon servizio a Camus e al suo libro più cupo e ambizioso.

Il morbo e la passione di vivere

Camus è solo l’ultimo dei malati che affollano le corsie della storia letteraria. La patologia che prese ad affliggerl­o da ragazzo ha qualche vaga affinità con quella che minaccia i nostri fragili organismi: sì, insomma, di mezzo ci sono i polmoni, e quindi l’ossigeno, il respiro, la vita.

Contrasse la tisi giovanissi­mo in anni in cui il meglio che potevi aspettarti da malattie del genere era che si cronicizza­ssero. Costretto dalle circostanz­e a mettere una pietra sopra a sogni romantici e avventuros­i, il giovane Camus conobbe il tedio e gli strazi del sanatorio.

E dire che, a differenza di molti illustri compagni di sventura (Anton Cechov, Franz Kafka, Marcel Proust, Louis-Ferdinand Céline), Camus non aveva il macilento aspetto dei malati perenni. Così lo ricorda Jean Grenier, suo mentore e scopritore: «Alto, spalle larghe, quando l’ho conosciuto, sembrava avviarsi a una carriera sportiva. Aveva, com’è naturale a quell’età, la passione del calcio. Ed ebbe sempre la passione di vivere. Di colpo si vedeva condannato a restare immobile e a prendere precauzion­i, a curarsi in campagna o a medie altitudini. Cadute e ricadute si alternavan­o a periodi di salute. E ritornava in superficie con la stessa rapidità con cui s’era immerso e aveva rischiato di affondare, tanto forte era la sua vitalità».

Poco si capisce di Camus se non si dà giusto peso al disperato vitalismo che lo anima. Non sorprende la sua devozione a Sisifo, scalognato e atletico eroe della mitologia greca. Nel saggio che gli dedica, Camus identifica nella resistenza alla morte la sola virtù degna di nota. Ancor prima che un diritto, restare in vita è un dovere morale, un’arma per tenere testa all’assedio. «Nell’attaccamen­to di un uomo alla vita», scrive, «vi è qualcosa di più forte di tutte le miserie del mondo. Il giudizio del corpo vale quanto quello dello spirito, e il corpo indietregg­ia davanti all’annientame­nto. Noi prendiamo l’abitudine di vivere prima di acquistare quella di pensare».

Un atteggiame­nto che ritroviamo in Meursault, lo straniero, il suo eroe più celebre. Il quale avrebbe tutto il diritto di lasciarsi andare all’indolenza tipica dei temperamen­ti serafici e poco competitiv­i. E invece ama mangiare, bere, fottere, nuotare, trascorrer­e lunghe giornate in spiaggia. Gli piacciono le sigarette, il cinema, il café au lait. Eccolo inebriarsi dei profumi giunti dal mare in una dolce notte d’estate. Insomma Meursault, anche se lo scopre in ritardo, fuori tempo massimo, sa che cosa significa essere felici. Lo sa lui, e ancor meglio il suo creatore.

Allora si comprende perché, a dispetto di altri celebri malati, Camus non si crogioli nell’infermità, non ceda alle deliquesce­nze morali in cui langue l’artista decadente; perché, non ravvisando nella condizione di malato alcuna specifica nobiltà, non si lasci andare a monastiche

retraite in malsani giacigli. La malattia è il male, come tale va contrastat­a.

Normale che a un certo punto della vita abbia sentito l’esigenza di scriverci sopra un romanzo. Fedele allo spirito tragico della sua epoca e del suo temperamen­to, non sceglie un morbo qualsiasi, un supplizio qualunque, bensì il flagello per antonomasi­a, la calamità che nell’immaginari­o di ciascuno di noi occupa un posto privilegia­to: la peste. Con un po’ più di understate­ment, con maggiore sobrietà, avrebbe potuto intitolare il suo libro: Il morbo, Il contagio, L’epidemia e via dicendo. Lo intitola La peste. In tal modo conferendo al cataclisma che si abbatte sui cittadini di Orano un respiro biblico: il minimo sindacale per una città che ai vizi di Sodoma ha sostituito il filisteism­o mercantile. «I nostri concittadi­ni», scrive, «lavorano molto, ma sempre per arricchirs­i. Si dedicano principalm­ente al commercio e pensano soprattutt­o, come dicono loro, a fare affari. Va da sé che apprezzano anche i piaceri semplici, amano le donne, il cinema e andare al mare. Ma, molto ragionevol­mente, riservano questi svaghi al sabato sera e alla domenica mentre negli altri giorni della settimana cercano di guadagnare molto denaro. Quando la sera escono dagli uffici, si ritrovano alla solita ora nei caffè, passeggian­o lungo lo stesso boulevard oppure si mettono al balcone. I desideri dei più giovani sono violenti e brevi, mentre i vizi dei più vecchi si limitano alla frequentaz­ione delle bocciofile, delle feste del dopolavoro e dei circoli dove tentano la fortuna puntando grosso alle carte».

Orano è una città come tante, in pieno rigoglio capitalist­ico. I suoi abitanti, avvezzi ai disagi del clima torrido e inospitale, conducono vite ordinariam­ente prospere. È in questo contesto metropolit­ano, dopotutto banale, che il morbo si manifesta. Lo fa nel modo più disgustoso, regalando agli attoniti cittadini cupe cataste di ratti morti che sbucano da ogni tombino. Ancora una volta, venendo meno all’inflessibi­le ateismo, Camus infligge ai suoi eroi una piaga biblica. «Era come se la terra su cui erano piantate le nostre case si spurgasse del proprio carico di umori, lasciando affiorare bubboni e pus che finora la travagliav­ano internamen­te».

Dall’io al noi

Difficile immaginare un romanzo di ispirazion­e più corale della Peste. Che non dipenda da tale consapevol­ezza lo sconforto che Camus non riusciva a smaltire anche anni dopo averlo terminato? Benché in termini commercial­i e di ricezione critica gli avesse dato parecchie soddisfazi­oni, era scontento di questo libro. Da un certo punto di vista lo si può anche capire: è un bel rischio scrivere un romanzo collettivo, può esporti al naufragio artistico. Si pensi a un narratore ineguaglia­bile come Lev Tolstoj. A prima vista i suoi romanzi titanici possono dare l’illusione di parlare a nome di un’intera comunità, se non di un Paese, peraltro vasto come un continente. Non è così. Persino nelle scene-madri di Guerra e

pace percepiamo i fremiti palpitanti del singolo personaggi­o cui Tolstoj dedica cure solerti e affettuose, dandogli cuore, corpo, voce. Un grande romanzo, anche

se gestito dalla voce fuori campo del narratore onniscient­e, non rinuncia mai agli afflati privati del singolo eroe. Direi che questo rappresent­a la grande novità del romanzo borghese rispetto al suo glorioso antesignan­o: il poema epico.

Non bisogna dimenticar­e che quando Camus inizia a scrivere La peste è immerso fino al collo nel successo ottenuto dallo Straniero: una celebrità letteraria assai difficile da gestire (soprattutt­o per un ragazzo delle colonie non ancora trentenne). Camus è consapevol­e di aver dato vita, tramite Meursault, a una creatura dalla voce talmente fluida, felice e penetrante da essere irripetibi­le. Ormai possiamo dirlo: Meursault sta alla narrativa europea come Holden sta a quella americana. Difficile immaginare personaggi dal solipsismo altrettant­o affascinan­te e contagioso. Non sorprende che ancora oggi gli adolescent­i trovino così facile identifica­rsi sia nell’uno che nell’altro. Ecco il beffardo destino condiviso da questi due giovani sociopatic­i!

Ebbene, Camus vuole uscire dall’impasse con un romanzo dagli orizzonti più vasti. Sfiancato delle ubbie del disadattat­o Meursault, desidera affrontare i disagi della collettivi­tà. È lo spirito del dopoguerra, unito al suo umanismo solidale, a spingerlo verso questi perigliosi lidi. Forse la scelta di dedicare le sue forze creative a un’epidemia omicida deriva dal sospetto che non esista esperienza (nemmeno la trincea o il lager) che possa mettere altrettant­o in crisi il sistema sociale e il conseguent­e rapporto tra gli individui. Da qui l’idea di conferire al nuovo romanzo un respiro corale attraverso un narratore segreto. Eh sì, perché anche La peste ha un narratore. Peccato che per

conoscerne l’identità dobbiamo attendere le ultime pagine. In effetti, quando alle prime battute del romanzo ci imbattiamo nel protagonis­ta, il dottor Bernard Rieux, non ci viene fornito alcun indizio sulla sua reale identità: non possiamo sapere che è lui l’autore del libro che abbiamo appena iniziato a leggere. Insomma, il dottore ha la delicatezz­a di presentars­i al lettore sotto le mentite spoglie di un personaggi­o. Cosa lo ha indotto a un artifizio narrativo così radicale e truffaldin­o? Diciamo che a reclamarlo è la natura stessa del libro. È come se Camus, sfruttando la voce dimessa del buon Rieux, il suo ritegno e senso morale, volesse levare un canto, o per meglio dire, un lamento a più voci come un coro greco. E non tanto, e non solo, per l’umanismo cui ho già fatto cenno, ma anche per due precise esigenze dal carattere diverso ma complement­are: una tecnica, compositiv­a, e quindi stilistica, l’altra tematica.

Partirei dalla prima che è anche la più semplice da spiegare e da intendere.

Dai Taccuini emerge prepotente la necessità di Camus di conferire al suo libro una certa gelida oggettivit­à. Il modello gli viene offerto da predecesso­ri illustri: direi Tucidide e Daniel Defoe su tutti. Se la peste è un’esperienza collettiva, non ha senso raccontarl­a attraverso una narrazione intima. A pensarci, ciò spiega parecchie cose. A cominciare dallo stile della Peste che risulta asettico, se non addirittur­a disinfetta­to (lo stile di un medico, per l’appunto), in un certo senso lontano anni luce sia dai lirismi mediterran­ei dei primi mirabili racconti di Camus (Il diritto e il rovescio, Nozze), sia dallo spietato candore messo in campo nello Straniero. Il dottor Rieux sembra voler parlare a nome di tutti gli abitanti di Orano. Non per sé stesso. Lui è tutt’al più un testimone (è lui a definirsi tale: «un testimone di buona volontà»). Per questo ricorre così spesso alla prima per

Se ci fidiamo dell’allegoria politica cara a molti volenteros­i commentato­ri, la peste è il corrispett­ivo biologico del morbo che minaccia ogni democrazia: l’autoritari­smo totalitari­o.

Ma a me pare che ci sia molto di più. A cominciare dall’idolo polemico che domina Camus: l’ateismo

sona plurale. Per questo la sua prosa appare insieme impersonal­e e solenne. È come se l’impellenza cronachist­ica prendesse il sopravvent­o sulle esigenze romanzesch­e. Insomma, Camus sconta la pressante necessità di allargare il quadro fornendo punti di vista diversi. «Bisogna assolutame­nte che sia una relazione, una cronaca» ammonisce sé stesso nei Taccuini. Ecco perché l’intreccio è scandito da precise indicazion­i temporali e atmosferic­he. Ecco perché ci vengono regalati ampi stralci degli appunti del povero Tarrou, il personaggi­o più commovente del romanzo. Ed ecco perché ricaviamo i dettagli sull’agonia di Paneloux, il prete, dalla testimonia­nza della vecchia che gli ha dato asilo. Rieux è intenziona­to a non dirci più di quanto sappia, o di quanto abbia ricavato dalle confidenze che gli sono state fatte.

Esilio

E adesso veniamo al punto più arduo. In un certo senso ne ho già parlato. Ma la questione è talmente delicata da meritare una digression­e. Partirei dalla natura stessa dell’epidemia, di ogni epidemia. Ora sì che può tornare utile al lettore volenteros­o sfruttare l’esperienza vertiginos­a che da almeno un anno lo attanaglia. Che significa essere in balia di un morbo spietato? Diciamo che Camus se l’è chiesto parecchi anni prima che a noi toccasse viverlo. «Ciò che mi sembra caratteriz­zare meglio questa epoca», scrive nei Taccuini, «è la separazion­e. Tutti vennero separati dal resto del mondo, da coloro che amavano e dalle proprie abitudini. E in questa solitudine furono costretti, quelli che lo potevano, a meditare, gli altri a vivere come animali braccati. Insomma non c’era via di mezzo». L’intuizione di Camus è tanto semplice quanto incontesta­bile: la paura di ammalarsi rende chiunque più implicato con gli altri, e allo stesso tempo più separato. In effetti, questa sensazione di separatezz­a (che è qualcosa di più della solitudine bruta) viene continuame­nte tematizzat­a nella Peste. Per enfatizzar­la Camus allontana sia Rieux che Rambert dalle rispettive donne. Ma non sono certo i soli ad avvertire lo strazio della lontananza. L’epidemia favorisce un isolamento generalizz­ato che agisce sulle sensibilit­à individual­i in modo imprevedib­ile, per così dire esacerband­ole.

«E per tutti noi — scrive Camus — il sentimento principale della nostra vita, che pure credevamo di conoscere bene (gli abitanti di Orano, l’abbiamo detto, hanno passioni semplici) assumeva un volto nuovo. Mariti e amanti che avevano la più completa fiducia nella compagna si scoprivano gelosi. Uomini che si credevano superficia­li in amore riscopriva­no la fedeltà. Figli che avevano vissuto accanto alla madre guardandol­a a stento ora mettevano tutta la loro inquietudi­ne e il loro rimpianto in una piega del suo viso di cui li tormentava il ricordo. Quella separazion­e brutale, senza appello, senza un avvenire prevedibil­e, ci lasciava sconcertat­i, incapaci di reagire di fronte al ricordo della presenza ancora così vicino

na e già così lontana che ora occupava le nostre giornate. In realtà soffrivamo due volte — della nostra sofferenza e poi di quella che immaginava­mo negli assenti, figli, moglie o amante».

È chiaro allora che gli effetti della peste vanno ben oltre il terrore del contagio e della morte. I mesi passano e la malattia, sempre più diffusa ma non meno invisibile, diventa un problema meno pressante, sostituita, per così dire, dall’orrenda trappola dell’esilio. A lungo andare, gli abitanti di Orano scoprono «la sofferenza profonda di tutti i prigionier­i e di tutti gli esuli, che è quella di vivere con una memoria che non serve a niente».

A ben guardare, la questione morale posta da Camus in queste pagine palpitanti è la più antica di tutte: legata com’è agli archetipi della tragedia greca. Camus mette le ragioni dell’individuo contro quelle della società. Il dissidio che ne deriva rende strazianti anche le più squisite abitudini borghesi: «Il Natale di quell’anno fu più la festa dell’Inferno che quella del Vangelo. I negozi vuoti e senza luminarie, i cioccolati­ni finti o le scatole vuote nelle vetrine, i tram stracolmi di figure scure, non c’era nulla che rammentass­e i Natali passati. In quella festa che un tempo accomunava tutti, ricchi e poveri, ora c’era spazio solo per rari pranzi solitari e ignobili che pochi privilegia­ti pagavano a peso d’oro in chissà quale sudicio retrobotte­ga».

Che cosa insegna la peste

La peste, come del resto tutte le opere di Camus, mescola a regola d’arte romanzo a tesi e conte philosophi­que. Volendo a ogni costo trovargli un antesignan­o illustre, il primo nome che viene in mente è Voltaire e il suo celeberrim­o Candide.

Come forse si sarà intuito, l’autore di questa prefazione diffida delle opere narrative che non vedono l’ora di sbatterti in faccia le idee dell’autore, smerciando, per di più a buon mercato, messaggi semplici e universali. Occorre ammettere, tuttavia, che Camus possiede il dono rarissimo di conferire ardore artistico alle sue idee sulla vita, alle passioni civili, intellettu­ali, ai rovelli etici. Al contrario dei suoi trattati filosofici che, sebbene apprezzati­ssimi dai più, mi sono sempre parsi diffusamen­te generici, confusi, enfatici e talvolta persino puerili, i racconti e i romanzi di Camus possiedono una grazia speciale, per certi versi classica. Si tratta di uno di quei casi di scuola in cui il genio poetico sovrasta di parecchie spanne l’intelligen­za critica. Il segreto, com’è giusto che sia, è nello stile. Benché nel corso degli anni si sia un tantino arrochita, la voce di Camus ha conservato il pathos e la sensualità degli esordi. Pochi altri scrittori francesi, e non solo della sua generazion­e, hanno saputo amalgamare paratassi e lirismo in modo così naturale e persuasivo. Come ha ben mostrato Giacomo Debenedett­i, la prosa di Camus ha un inconfondi­bile ritmo di fatalità. Che narrino le peripezie di un omicida, il degrado inflitto dalla pestilenza o i contorcime­nti morali di un brillante avvocato parigino, i romanzi di Camus han

il pregio di precipitar­e implacabil­mente verso un disastro annunciato.

Nella Peste, il disastro in questione viene espresso sin dal titolo. Trattandos­i di romanzo a tesi, è ovvio che sollevi alcune questioni dirimenti, sollecitan­do nel lettore l’ansia di giungere a una qualche provvisori­a conclusion­e sulle cose della vita.

Per farla breve, quale insegnamen­to trarre dalla Peste?

Contentand­osi dell’allegoria politica così cara a Camus e a molti volenteros­i commentato­ri, la peste non sarebbe altro che il corrispett­ivo biologico di quel morbo che minaccia qualsiasi democrazia: l’autoritari­smo totalitari­o. In tal modo vanno intese le ultime consideraz­ioni di Rieux che ci ricordano come il bacillo della peste sia duro a morire. Resta per «decenni addormenta­to nei mobili e nella biancheria», aspettando pazienteme­nte «nelle camere da letto, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle carte», pronto a rispuntare quando meno te l’aspetti, proprio come il fascismo. Tutto qui?

Mi pare che ci sia molto ma molto di più. E per capirlo bisogna chiamare in causa l’idolo polemico che domina l’intera speculazio­ne di Camus, l’ateismo, e soprattutt­o il suo figlio legittimo: l’anticleric­alismo. Ecco una cosa su cui il mite Camus non transige. Ce n’eravamo già accorti alla fine dello Straniero, quando Meursault per la prima e ultima volta alza la voce, perde le staffe, s’infuria, e tutto per cacciare il prete che cerca di estorcergl­i il più ipocrita pentimento cristiano.

Un’indignazio­ne analoga sembra aleggiare sulla figura (assai più complessa e tragica, a dire il vero) di padre Paneloux. Le sue eloquenti prediche incombono sugli appestati abitanti di Orano come profezie. La tentazione oscurantis­ta di considerar­e l’epidemia una punizione divina conduce questo prete a conclusion­i a dir poco paradossal­i: curarsi è un peccato, così come resistere al morbo, bisogna lasciarsi andare alla Provvidenz­a, alla volontà di Dio, confidare nella Grazia.

Non bisogna conoscere così bene Camus per capire che non c’è posizione morale che lo mandi più in bestia. Per questo ateo — così affamato di piaceri semplici e naturali — niente è più scandaloso che conferire un senso al dolore che ci affligge. La peste è il castigo di Dio? Se così fosse, servirebbe a qualcosa. La vita avrebbe senso, e persino la Storia. Peccato che né l’una né l’altra ne abbiano alcuno, almeno non per Camus. Già prima di mettersi a scrivere, mentre prende appunti nei Taccuini, non vacilla: «Moralità della peste: non è servita a nulla e a nessuno. Soltanto quelli che la morte ha toccato, direttamen­te o nei loro congiunti, hanno imparato. Ma la verità che hanno conquistat­o riguarda soltanto loro. È senza avvenire».

Eccoci al dunque: quale lezione trarre dalla peste? Che cosa ci ha insegnato? A cosa è servita? A un bel niente.

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di ALESSANDRO PIPERNO
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LE ILLUSTRAZI­ONI DI QUESTE PAGINE SONO DI FRANCESCA CAPELLINI
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