Corriere della Sera - La Lettura
La rivincita degli scacchi I re del distanziamento
Una serie tv ha contribuito al rilancio di un gioco, gli scacchi, che sembra adatto in questo frangente sociodepressivo. All’inizio le mosse per lettera, poi al telefono, infine online (con un’intensità emotiva ben maggiore di riunioni via Zoom)
Sono un vecchio scacchista e ovviamente ho seguito con interesse il rilancio mediatico di cui ha goduto il gioco a partire dal successo de La regina degli scacchi. Ho letto parecchie cose sulla serie, meno sul romanzo di Walter Tavis, ma non mi sembra che sia stato messo in evidenza un aspetto piuttosto significativo, soprattutto in questo particolare frangente sociodepressivo: gli scacchi permettono da sempre una reale, effettiva presenza nel distanziamento. In passato ciò accadeva nelle partite per lettera, dove i giocatori attendevano per settimane la mossa dell’avversario, mantenendo una forma di tensione, e quindi di permanenza dell’altro nella propria attività mentale, anche durante lo svolgimento delle faccende quotidiane. Ciò accade oggi, in misura ancora maggiore, nel gioco in rete, dove il contatto in tempo reale con lo sconosciuto che fronteggia la scacchiera da un altro continente, in un altro fuso orario, spesso è più efficace, in termini di intensità emotiva, di una comunicazione su Zoom.
Non ci si parla durante il gioco. Benché quasi tutti i siti prevedano la possibilità della chat, solo pochi utenti accennano un saluto, rarissimi cedono a qualche battuta. Eppure si entra facilmente in intimità, un’intimità non solo psicologica e banalmente cerebrale, ma oserei dire profondamente umana. Dello sfidante vedi solo la nazionalità, il nickname e il punteggio, presto però cominci a conoscerlo, capisci che è un tipo cauto e astuto, oppure irruento e famelico, dotato di una aggressività che potrà farti molto male o forse lo indurrà a commettere un errore prima di te. Un errore prima o poi scappa sempre. Come si usa dire, solo alla fine della partita si capisce se quella svista era un sacrificio. Ognuno di noi incalliti ricorda sacrifici famosi di alfiere, di torre, o addirittura di regina (nell’italiano scacchistico, donna). Ma non basta la conoscenza per emulare Bobby Fischer e gli altri dei. Occorre saper perdere e questa è una dote che non si impara mai davvero fino in fondo. Come si sa, è un gioco dove la fortuna non conta, e quindi non ci sono scusanti, vince il più forte, il quale nella sua opera di annientamento ti arrecherà una certa dose di umiliazione anche nel caso abbia deciso di non infierire più del necessario. Può essere una partita qualsiasi, ma brucia sempre. E qui emerge un altro tratto intimo dello sconosciuto che sta giocando con te a notte fonda dalle Filippine, poniamo, o dall’India, o dal Brasile: la sua correttezza, di fatto la sua onestà. I siti caldeggiano molto il fair-play, eppure ci sono giocatori che ti battono per tempo (da
un certo livello in poi, soprattutto nelle partite cosiddette lampo, si arriva di rado allo scacco matto), magari anche solo per mezzo secondo, e non ti concedono la rivincita. Ci sono giocatori che, una volta inchiodati in una situazione dove è evidente che matterai in tre mosse, ti offrono di pattare. Ci sono giocatori che, in preda alla rabbia, abbandonano la scacchiera senza però arrendersi, costringendoti così ad aspettare l’esaurimento completo del tempo a loro disposizione prima di ottenere l’ufficializzazione della vittoria. Con alcuni, di solito quelli che pur dandoti del filo da torcere non ti fanno venir voglia di prendere un aereo e andarli a cercare, diventi amico — nel senso che ha assunto oggi questo termine in rete — e il loro nickname finisce per essere, appunto, una presenza fissa della tua vita.
Uno di questi è mio nipote Marco, che ho sfruttato ignobilmente in alcuni racconti quand’era bambino, ma che oggi, a ventuno anni, gravita in galassie a me del tutto ignote, dalle quali raggiunge lo zio con laconici messaggi interrogativi — ehi vecchio, come butta? — spesso screziati di uno humour colmo di malinconia. Parliamo poco, abitiamo in due città lontane, ma grazie agli scacchi siamo molto presenti l’uno nella vita dell’altro.
Il filo che ci lega ha cominciato a tirare presto, quando nella sua scuola modello è apparso un maestro di scacchi e il gioco è diventato un’attività integrativa delle materie curricolari. Da noi è abbastanza raro che accada, mentre in molti Paesi orientali gli scacchi fanno parte a pieno titolo della formazione intellettiva dei bambini. Il che è spiegato anche dalla facilità con cui il gioco fa breccia nelle giovani menti, grazie al suo potenziale immaginifico, uno scenario di guerra dalle tinte gotiche dove si affrontano due eserciti, nei quali viene spontaneo figurarsi portentose clorinde o cavalieri della tavola rotonda. Basta solo afferrare i pezzi, guardarli da vicino, spostarli sulla scacchiera, basta imparare come si muovono e si precipita nella dimensione del fantastico: quattro alfieri che sfrecciano sulle diagonali, quattro torri sulle colonne e le traverse orizzontali, sedici pedoni che procedono a piccoli passi come fanti appesantiti dall’armatura, ma quando raggiungono l’ultima casa vengono promossi e, volendo, anche nel pezzo più potente, la regina, che può tutto tranne volare, e poi due re, che arrancano lenti ma guai a lasciarsi avvicinare, e quattro cavalli fuori di testa che procedono dritti e poi di colpo scartano di lato con un assurdo movimento a L e scavalcano qualsiasi pezzo, amico o nemico che sia, appena ne hanno voglia. Non una favola, milioni di favole. Ma senza narratore. Storie che si svolgono mute nelle teste dei giocatori mentre all’esterno vengono appena accennate dai pezzi. Ogni partita un’avventura nuova. Già alla prima mossa quattrocento posizioni possibili. Quasi settantaduemila alla seconda mossa. Nove milioni alla terza. Alla quarta, di fatto la partita non è ancora cominciata e siamo nell’ordine dei trecentoquindici miliardi di schemi di gioco. Storie, storie, storie. Dal punto di vista strettamente matematico non si può parlare di infinito, ma in pratica la differenza è inesistente. Il numero è 10 alla 120. Più grande del numero di elettroni nell’universo. Così si insegna di solito, e così ho imparato anch’io.
Ho cominciato a giocare in ricreatorio, a Trieste una vera istituzione, ben distribuita nei rioni, con funzioni di doposcuola ma di impostazione laica, ovvero alternativa all’oratorio. Avevo sette anni, la stessa età in cui
ha iniziato mio nipote, era il 1972, l’anno della sfida per il titolo mondiale tra Boris Spasskij e Bobby Fischer, poi definita giustamente «l’incontro del secolo». All’epoca gli scacchi erano un gioco da tavolo diffuso quanto il Monopoli, tutti i bambini conoscevano le mosse, e quella sfida di cui si parlava addirittura nei telegiornali, con tutto il retroscena della guerra fredda e le telefonate di Kissinger, aveva acceso gli animi delle tifoserie non solo tra gli adulti. Nel mio ricreatorio, cuore pulsante di un rione operaio, lottavamo tutti per essere Spasskij e solo alla fine, con grande delusione, abbiamo scoperto che era più figo essere Fischer.
In ogni caso i miei risultati non erano certo brillanti come quelli di mio nipote, il quale nel giro di un anno ha vinto il torneo delle scuole e, sotto la mia spinta, è stato iscritto dai suoi genitori al circolo cittadino. Frequentava i corsi con assiduità e aveva già ottenuto qualche piccola soddisfazione nei tornei locali, a dodici anni mi metteva in ginocchio con le sue portentose catene di pedoni, ancora oggi la sua arma vincente, ma poi, come capita nel novantanove per cento dei casi, si è stufato di studiare. Da un certo punto in poi gli scacchi, come la musica, richiedono molte ore di studio, aperture e finali da mandare a memoria, e di fronte alle prime delusioni, magari la batosta inferta da un coetaneo, è facile (e forse anche più sano) preferire un pomeriggio al parco con gli amici. Fosse dipeso da me lo avrei obbligato a continuare, ma per fortuna gode di genitori più illuminati. Io capisco benissimo il fanatismo dei padri, le proiezioni sui figli (che non ho). Sono sempre stato affascinato, ad esempio, dall’esperimento dell’ungherese Laszlo Polgar, da cui ho tratto l’unico mio romanzo di ambientazione scacchistica.
Il dottor Polgar è uno psicologo appassionato di scacchi che negli anni Ottanta ha voluto provare sul campo, cioè sulle tre figlie, la validità di alcuni studi americani che demolivano il cliché del campione inteso come talento innato, dotato di capacità mentali prodigiose grazie al suo genoma. Molti campioni hanno un quoziente di intelligenza elevato, ma il fatto che il QI sia ereditario non significa che non sia modificabile. La memoria degli scacchisti, ad esempio, è spiegata dall’abilità di fissare un maggior numero di schemi secondo un criterio di pertinenza, più o meno come si fa raccogliendo due-tre cifre alla volta per ricordare un numero di telefono invece di tentare di memorizzare nove dati scollegati. Si chiama ed è un’abilità
Uno scacchista di buon livello può giocare alla cieca perché trattiene sequenze di figurazioni, conglomerati salienti, perché lo sviluppo geometrico della partita. È una vista che ha Comunque, l’esperimento nasceva da una vocazione ideologica: spegnere le insegne sfolgoranti del genio, invenzione aristocratica, suggestione borghese. Il dottor Polgar dava ragione a chi demitizzava l’individuo, era peraltro un socialista ungherese in attività prima della caduta del muro di Berlino. Per anni ha somministrato alle figlie dieci ore di scacchi al giorno per dimostrare che qualsiasi bambino debitamente addestrato può trasformarsi in un campione. I risultati lo hanno premiato: Szusza Polgar è diventata la prima donna Grandmaster, Zsofia ha vinto il torneo di Roma nel 1989, a quattordici anni, con 8,5 su 9 turni, e Judit è ancora oggi la donna che, dopo essersi rifiutata di giocare nei campionati femminili, si è avvicinata di più al titolo mondiale assoluto, battendo Garry Kasparov, forse il più grande giocatore di sempre, e altre stelle più recenti, come Viswanathan Anand e Magnus Carlsen.
Io, anche a causa della lontananza, non sono riuscito a plagiare mio nipote, che è ora niente più che un discreto giocatore, il che comporta però il grande vantaggio, almeno per me, di poterlo affrontare con la speranza di vincere una partita ogni tanto. A ciò va aggiunta anche la sua impiegabile indulgenza nei miei confronti, soprattutto riguardo al passato, quando, già pregustando i suoi trionfi, lo chiamavo Superchampion.
Sicché giochiamo a distanza. Niente più vacanze in famiglia, niente più spostamenti tra regioni. Abbiamo accantonato per un po’ la nostra bella scacchiera in bosso e i meravigliosi pezzi Staunton con doppio piombo, ci mandiamo le mosse per email, una al giorno, soltanto la notazione algebrica, camminiamo per strada pensando perché Df4? Alterniamo le sfide per lettera con lunghe serate attaccati agli schermi giocando sei-sette partite lampo, senza dirci una parola. Dopodiché ci telefoniamo per commentare gli errori, seguiamo insieme l’analisi del computer, ci annotiamo le mosse migliori e intanto lasciamo che l’adrenalina si dissolva nel flusso venoso e ritroviamo il tono per fare quattro chiacchiere in relativa tranquillità. Giusto qualche minuto, perché lui si annoia subito a parlare del più e del meno, soprattutto si ritrae come un riccio se provo a fargli qualche domanda. Amici, ragazze, studio, lavoro restano pressoché inaccessibili alla mia curiosità, se non per vaghi cenni di pura cortesia. Ma poi, a un certo punto della settimana, mi arriva un messaggio — ehi vecchio, come butta? — e ci accordiamo sulla prossima sfida. Siamo lontani, ligi al distanziamento, ma il filo non si è interrotto, anzi, tira sempre meglio.