Corriere della Sera - La Lettura
Manzoni e l’ ode nascosta per 27 anni
L’autore pubblica «Marzo 1821» solo nel 1848, dopo le Cinque giornate
«La mia ode sul marzo del 1821 — racconterà Manzoni, rievocando i giorni palpitanti di duecento anni fa — l’ho tenuta nascosta in quel luogo in cui gli uomini non possono vedere, nella mia memoria; e vi stette per ventisette anni». L’euforia per i moti piemontesi era destinata a durare poco: l’8 aprile l’insurrezione era già stata stroncata e anche a Milano l’aria si era fatta sempre più pesante. Tanto che Manzoni si decise a pubblicare quei versi solo nel giugno 1848, durante i giorni dell’indipendenza, anche quella effimera, seguita alle Cinque giornate. Delle precedenti fasi di composizione non rimane traccia: per prudenza, l’autore aveva fatto sparire tutti i manoscritti.
Un caso particolare, quasi unico. Perché moltissime sono le testimonianze dell’instancabile lavoro di scrittura e riscrittura fatto da Manzoni sulle sue opere, e del lavoro di lettura e rilettura — quasi altrettanto meticoloso: postille, annotazioni, commenti — fatto sui libri della sua biblioteca. Per farsene un’idea, possono bastare le tre diverse redazioni del romanzo che preludono alla sua prima pubblicazione nel 1827: quelle identificate rispettivamente con i titoli di Fermo e Lucia, Sposi promessi e, appunto, Promessi sposi. Redazioni che si susseguono e sovrappongono, dando vita a diversi stadi del lavoro sui quali Manzoni si trova spesso a mettere mano contemporaneamente (lo racconta molto bene Giulia Raboni nel suo Come lavorava Manzoni). Né il lavoro si ferma con la prima edizione. Neanche il tempo di vederla stampata e con il viaggio a Firenze s’inaugura la nuova fase di revisione che condurrà all’edizione definitiva del 1840-42.
Tutto questo ricchissimo insieme di appunti, abbozzi, stesure, note di lettura riguardanti le opere di Manzoni è stato a lungo di difficile accesso. Ora può essere letto, studiato o anche solo ammirato da chiunque e da dovunque grazie al portale Manzoni Online (alessandromanzoni.org). Una straordinaria risorsa realizzata grazie alla collaborazione di diversi atenei con il Centro Nazionale di Studi Manzoniani e la Biblioteca Nazionale Braidense (in cui si trova gran parte dell’archivio e della biblioteca di Manzoni). Allo stesso gruppo di lavoro si deve un volume a più mani (Manzoni, a cura di Paola Italia) in cui, facendo tesoro degli ultimi decenni di ricerche, si offre del grande scrittore un’immagine complessiva finalmente libera da vecchi luoghi comuni. Un nuovo profilo, che è il risultato — come scrive nel suo saggio Donatella Martinelli — di «una nuova carta di navigazione» e ha il merito di indicare agli studi nuove strade da percorrere.
Tra i temi che attraversano l’intero volume, rispecchiando quella che è stata una delle ossessioni di Manzoni, c’è la questione della lingua. Questione centrale dal punto di vista non solo letterario, ma anche politico: «Una d’arme, di lingua, d’altare» era la gente d’Italia immaginata in un verso di Marzo 1821. Questione che ancora oggi si sente troppo spesso riassumere nella facile formula dello sciacquare i panni in Arno, immagine usata a più riprese da Manzoni e poi rapidamente diventata proverbiale. «Lo sciacquare i panni in Arno» come «il romanzo della Provvidenza» o come «lo spartiacque della conversione» (formule che, appunto, gli studi più recenti hanno dimostrato ormai piuttosto logore). Quasi un’altra e parallela conversione, anzi, che avrebbe in sé qualcosa di provvidenziale, preparandosi a dare un modello di lingua all’Italia unita.
Invece, proprio perché Manzoni era «uno scrittore in cerca della lingua» (come lo definì Maria Corti), la ricostruzione storica non può accontentarsi del risultato di quella ricerca. Deve indagarne attentamente il processo, vale a dire quel percorso — dinamico, irrequieto, tormentato — che riesce solo via via a mettere a fuoco il suo stesso obiettivo. E coinvolge anche aspetti finora meno studiati (come la sintassi, la testualità, la punteggiatura) o che nel frattempo si sono arricchiti di nuovi elementi d’indagine, come il rapporto con le fonti della norma linguistica.
Ecco dunque che le fittissime postille appuntate da Manzoni su una copia del vocabolario della Crusca (pubblicate e studiate quasi cinquant’anni fa da Dante Isella) ci appaiono ora non come il punto di partenza, ma come il provvisorio punto d’arrivo di tutta una serie di riflessioni nate durante la lettura dei canonici testi di lingua. Testi toscani dei secoli precedenti su cui Manzoni lascia glosse, sottolineature, piegature delle pagine con orecchie che vanno a indicare certi precisi punti. In gran parte, testi della letteratura comica e burlesca: possibile serbatoio di parole ed espressioni utili per simulare un parlato colloquiale. Quello che Manzoni praticava solo in milanese o in francese, ma gli era indispensabile per ravvivare l’italiano del romanzo; facendo ricorso, in alcuni casi, anche a «modi di dire irregolari» individuati nei classici.
È significativo, ad esempio, che la prima versione dell’introduzione agli Sposi promessi ricordi in qualche passaggio la prefazione di Goldoni alle sue Commedie. Quasi a suggerire un legame tra quella provvisoria soluzione manzoniana e l’invenzione di una lingua scenica che caratterizzava il teatro italiano di Goldoni. Uno spunto che potrebbe riaprire anche la discussione sul rapporto con i romanzi italiani del Settecento, di cui nella biblioteca del Manzoni non c’è traccia, ma che — su questo specifico aspetto — presentano punti di contatto con le varie fasi dei Promessi sposi. Come i tanti modi di dire usati da Pietro Chiari e Antonio Piazza, romanzieri di successo nella Venezia di secondo Settecento, che in molti casi coincidono con quelli attinti da Manzoni alla tradizione comica toscana: cucirsi la bocca, vedere il cuore, toccare con mano, a quattr’occhi. Modi che Manzoni accompagna a volte con una sorta di certificazione dell’uso — «come si dice», «per dir così» — che nelle diverse redazioni cambia di segno, seguendo il progressivo mutare delle sue convinzioni linguistiche. E in ogni modifica ci dice qualcosa di cui dobbiamo tener conto per ricostruire l’evoluzione del quadro generale, perché «come dice un antico proverbio, del senno di poi ne son piene le fosse».