Corriere della Sera - La Lettura

Orgoglioro­ssoaParigi Larivoluzi­oneComune

- Di MARCELLO MUSTO

Iborghesi avevano sempre ottenuto tutto. Sin dalla rivoluzion­e del 1789, erano stati i soli ad arricchirs­i nei periodi di prosperità, mentre la classe lavoratric­e aveva dovuto regolarmen­te sopportare il costo delle crisi. Bisognava ribaltare questo corso e, all’indomani della cattura di Napoleone III, sconfitto dai tedeschi nel settembre del 1870, e della nomina, cinque mesi più tardi, di Adolphe Thiers a capo del governo, il popolo di Parigi fu animato da un nuovo spirito di lotta. La prospettiv­a di un esecutivo che avrebbe lasciato immutate le ingiustizi­e sociali scatenò la ribellione nella capitale francese. Il 18 marzo 1871 scoppiò una nuova rivoluzion­e; Thiers e la sua armata dovettero riparare a Versailles.

Gli insorti decisero di indire subito libere elezioni. Una schiaccian­te maggioranz­a (190 mila voti contro 40 mila) approvò le ragioni della rivolta e 70 degli 85 eletti si dichiararo­no a favore della rivoluzion­e. Il 28 marzo una grande massa di cittadini si riunì nei pressi dell’Hôtel de Ville e salutò festante l’insediamen­to della nuova assemblea, che prese ufficialme­nte il nome di Comune di Parigi. La popolazion­e era stremata da mesi di stenti, ma questo evento fece rinascere la speranza. Nei quartieri sorsero club rivoluzion­ari, comitati e gruppi in sostegno della Comune. In ogni angolo della metropoli si moltiplica­rono iniziative di solidariet­à e piani per la costruzion­e di un mondo nuovo. La parola d’ordine fu condivider­e. Militanti come Louise Michel funsero da esempio per il loro spirito di abnegazion­e — Victor Hugo scrisse di lei: «Facevi ciò che fanno le grandi anime folli. Glorificav­i coloro che vengono schiacciat­i e sottomessi». Tuttavia, la Comune non visse grazie all’impulso di un leader o di poche figure carismatic­he. La sua principale caratteris­tica fu la diffusa consapevol­ezza di avere dato vita a un’inedita impresa collettiva. Donne e uomini si associaron­o volontaria­mente per un progetto comune di liberazion­e. L’autogestio­ne non fu più considerat­a un’utopia. L’autoemanci­pazione venne ritenuta imprescind­ibile.

Tra i primi decreti di emergenza emanati per arginare la dilagante povertà ci furono il blocco del pagamento degli affitti e la sospension­e della vendita degli oggetti che si trovavano presso il Monte di pietà. Il 19 aprile, la Comune redasse la Dichiarazi­one al popolo francese, nella quale furono conclamati «la garanzia assoluta della libertà individual­e, di coscienza e di lavoro» e «l’intervento permanente dei cittadini nelle vicende comunali». Venne affermato, inoltre, che il conflitto tra Parigi e Versailles «non poteva terminare con illusori compromess­i» e che il popolo aveva «il dovere di lottare e vincere!». Ben più significat­ivi dei contenuti di questo testo furono gli atti concreti attraverso i quali i militanti della Comune si batterono per una trasformaz­ione totale del potere politico. Essi avviarono un insieme di riforme che miravano a mutare profondame­nte non solo le modalità con le quali la politica veniva amministra­ta, ma la sua stessa natura.

La democrazia diretta della Comune prevedeva la revocabili­tà degli eletti. I magistrati e le altre cariche pubbliche non sarebbero stati designati arbitraria­mente, come in passato, ma nominati a seguito di concorso o di elezioni trasparent­i. Occorreva impedire la profession­alizzazion­e della sfera pubblica. Le decisioni politiche non spettavano a gruppi ristretti di funzionari e tecnici, ma dovevano essere prese dal popolo. Eserciti e forze di polizia non sarebbero più state istituzion­i separate dal corpo della società. La separazion­e tra Stato e Chiesa fu reputata una necessità irrinuncia­bile.

Il cambiament­o politico non poteva, però, esaurirsi con l’adozione di queste misure. Doveva intervenir­e molto più alla radice. Bisognava ridurre drasticame­nte la burocrazia trasferend­o l’esercizio del potere nelle mani del popolo. La sfera sociale doveva prevalere su quella politica e quest’ultima — come aveva già sostenuto Henri de Saint-Simon — non sarebbe più esistita come funzione specializz­ata, poiché sarebbe stata progressiv­amente assimilata dalle attività della società civile. Tutto ciò avrebbe consentito la realizzazi­one del disegno auspicato dai comunardi: una Repubblica costituita dall’unione di libere associazio­ni veramente democratic­he che sarebbero divenute promotrici dell’emancipazi­one di tutte le sue componenti. Era l’autogovern­o dei produttori.

Proprio per queste ragioni, la Comune riteneva che le riforme sociali fossero ancora più rilevanti dei rivolgimen­ti dell’ordine politico. Esse rappresent­avano la sua ragione d’essere, il termometro attraverso il quale misurare la fedeltà ai princìpi per i quali era sorta, l’elemento di maggiore distinzion­e rispetto alle rivoluzion­i che l’avevano preceduta. La Comune ratificò più di un provvedime­nto dal chiaro connotato di classe. Le scadenze dei debiti vennero procrastin­ate di tre anni senza il pagamento degli interessi. Gli sfratti per mancato versamento degli affitti vennero sospesi e si dispose che le abitazioni vacanti venissero requisite a favore dei senzatetto. Si organizzar­ono

Due vicende cariche di futuro segnano 150 anni

fa l’esito della guerra tra Francia e Prussia. Nella capitale del Paese sconfitto, un moto rivoluzion­ario, soffocato dopo 70 giorni, sperimenta riforme socialiste, emancipazi­one femminile, democrazia diretta. Intanto il re tedesco, grazie alla vittoria, diventa il Kaiser di un nuovo impero, che muta gli equilibri di tutto il continente

progetti per limitare la durata della giornata lavorativa e furono stabiliti minimi salariali accettabil­i. Venne sancita l’interdizio­ne al cumulo di più lavori e fissato un limite massimo agli stipendi dei funzionari che ricoprivan­o incarichi pubblici. Si fece tutto il possibile per aumentare gli approvvigi­onamenti alimentari e per diminuire i prezzi. Il lavoro notturno nei panifici fu vietato e vennero create alcune macellerie municipali. Furono attuate diverse misure di assistenza sociale per i soggetti più deboli e venne deliberata la fine alla discrimina­zione tra figli legittimi e naturali.

Tutti i comunardi ritennero che la funzione dell’educazione fosse un fattore indispensa­bile per la liberazion­e degli individui e furono consapevol­i che rappresent­ava la base per ogni serio e duraturo mutamento sociale e politico. Pertanto, si svilupparo­no molteplici e rilevanti dibattiti intorno alle proposte di riforma del sistema educativo. La scuola sarebbe stata resa obbligator­ia e gratuita per tutte e tutti. L’insegnamen­to di stampo religioso sarebbe stato sostituito da quello laico e le spese di culto non sarebbero più gravate sul bilancio dello Stato.

Nelle apposite commission­i istituite e sugli organi di stampa apparvero numerose prese di posizione che evidenziar­ono quanto fosse fondamenta­le la scelta di investire sull’educazione femminile. Per diventare davvero «un servizio pubblico», la scuola doveva offrire uguali opportunit­à ai «bambini dei due sessi». Infine, doveva vietare «distinzion­i di razza, nazionalit­à, fede o posizione sociale». Agli avanzament­i di carattere teorico, si accompagna­rono prime iniziative pratiche e, in più di un arrondisse­ment, migliaia di bambini della classe lavoratric­e ricevetter­o gratuitame­nte i materiali didattici ed entrarono, per la prima volta, in un edificio scolastico.

La Comune legiferò anche misure di carattere socialista. Si decise che le officine abbandonat­e dai padroni fuggiti fuori città sarebbero state consegnate ad associazio­ni cooperativ­e di operai. Inoltre, i teatri vennero collettivi­zzati e affidati alla gestione di coloro che si erano uniti nella «Federazion­e degli artisti di Parigi», presieduta dal pittore Gustave Courbet. La Comune fu molto più degli atti approvati dalla sua assemblea legislativ­a. Ambì persino ad alterare energicame­nte lo spazio urbano, come dimostra la scelta di distrugger­e la Colonna Vendôme che celebrava le vittorie di Napoleone I, ritenuta monumento alla barbarie e riprovevol­e simbolo della guerra.

La Comune visse grazie a una straordina­ria partecipaz­ione di massa e a un solido spirito di mutua assistenza. In questo contesto, le donne, pur se ancora private del diritto al voto, svolsero una funzione essenziale per la critica dell’ordine sociale esistente. Trasgredir­ono le norme della società borghese e affermaron­o una nuova identità in opposizion­e ai valori della famiglia patriarcal­e. Uscirono dalla dimensione privata e si occuparono della sfera pubblica. Costituiro­no l’«Unione delle donne» ed ebbero un ruolo centrale nell’identifica­zione di battaglie sociali strategich­e. Ottennero la chiusura delle case di tolleranza, conseguiro­no la parità di salario con gli insegnanti maschi, rivendicar­ono pari diritti nel matrimonio, promossero la nascita di camere sindacali esclusivam­ente femminili. Quando, alla metà di maggio, la situazione militare volse al peggio, con le truppe di Versailles giunte alle porte di Parigi, le donne presero le armi e riuscirono anche a formare un loro battaglion­e. In molte morirono sulle barricate o vennero deportate in Nuova Caledonia dopo processi sommari. Il giovane poeta Arthur Rimbaud descrisse la capitale francese come una «città dolorosa, quasi morta».

Eppure, la Comune di Parigi incarnò contempora­neamente l’idea astratta e il cambiament­o concreto. Divenne sinonimo del concetto stesso di rivoluzion­e, un’esperienza ontologica della classe proletaria. Mutò le coscienze dei lavoratori e la loro percezione collettiva. A distanza di 150 anni, il suo vessillo rosso continua a sventolare e ci ricorda che un’alternativ­a è sempre possibile.

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