Corriere della Sera - La Lettura
Il Reich di Bismarck pesa ancora su Angela Merkel
Nel 1871 nacque la Germania unita e il suo artefice comprese subito i rischi dell’operazione. Attuali perfino oggi
Non sono molti i singoli eventi che hanno impresso una brusca sterzata al corso della storia. L’unificazione della Germania nel 1871, grazie alla vittoria della Prussia nella guerra con la Francia, è uno di quelli: fino ad allora oggetto di pressione da parte delle potenze «laterali» — Francia, Gran Bretagna, Svezia, Russia, Austria — l’area tedesca diventava improvvisamente soggetto di pressione su quelle stesse potenze. In cosa consistesse quella pressione, lo proverà l’orrore di due guerre mondiali.
Per secoli, la frammentazione dell’area tedesca era stata una garanzia di sicurezza per i suoi vicini, e ogni mezzo era buono per perpetuarla. Nel Cinquecento, il cattolico Francesco I, re di Francia, si alleò con gli ottomani musulmani per piegare l’imperatore germanico Carlo V d’Asburgo; i cattolici successori di Francesco sostennero i protestanti tedeschi per alimentare le divisioni in terra di Germania; e lo stesso fece il cardinale Richelieu, a costo di scatenare il più sanguinoso conflitto di tutta la storia umana in rapporto alla popolazione coinvolta: la guerra dei Trent’anni.
Furono però proprio i francesi, all’epoca di Napoleone I, a esportare in terra tedesca, insieme alle armi, l’idea di nazione. Nel 1808, il filosofo Johann Gottlieb Fichte ne prese spunto per immaginare una nazione tedesca «che genera il proprio essere e la propria storia dal suo pensiero, dalla coscienza che matura di sé». Al pensiero e alla coscienza si aggiunsero poi fattori ben più decisivi: la decisione del Congresso di Vienna di unire la Prussia con la Renania, l’unione doganale (Zollverein); gli interessi della borghesia delle regioni occidentali e gli interessi agrari degli Junker, i nobili prussiani; l’inizio della rivoluzione industriale; l’insurrezione del 1848; la nascita delle grandi banche e, soprattutto, della rete ferroviaria. In quel contesto di sviluppo, si moltiplicarono i fautori della trasformazione della «nazione tedesca» da anelito della coscienza a realtà politica. Tra di essi, l’economista Friedrich List, che caldeggiava l’allargamento dello Zollverein, convinto che all’espansione delle frontiere economiche dovesse seguire, presto o tardi, quella delle frontiere politiche. Nel passato, spiegava List, gli Stati si ampliavano attraverso l’eredità, l’acquisto o la conquista; «nei tempi moderni» si è aggiunta un’altra via: «L’unione degli interessi di vari Stati attraverso libere convenzioni». Un modello di allargamento che sarà poi adottato dall’Unione Europea, con l’adesione volontaria «di vari Stati» al mercato unico.
Ma vi furono anche studiosi tedeschi preoccupati dei rischi di un’eventuale unificazione. Già nel 1818, lo storico Hermann Heeren scriveva che una Germania unita avrebbe inevitabilmente provocato la reazione ostile dei suoi vicini, diventando «nel giro di poco tempo la tomba per la libertà in Europa». Quasi vent’anni dopo, un altro storico, Jacob Burckhardt, affermò che l’unificazione avrebbe finito per scatenare «quanto di infernale vi è nella natura umana». Poi arrivò Otto von Bismarck, definito da Michael Stürmer, consigliere di Helmut Kohl, «un genio della realtà, che leggeva negli interessi delle grandi potenze come un banchiere nel libro mastro di una banca». Bismarck condivideva le preoccupazioni di Heeren e Burckhardt, ma sapeva anche che, in un contesto di accresciuta competizione internazionale, «diventeremo un’incudine se non facciamo nulla per essere un martello» (1854). Per diventare «un martello», Bismarck sfruttò non solo tutte le condizioni dello sviluppo, ma anche e soprattutto le rivalità incrociate delle grandi potenze; raccolse quelle spinte diverse e le convogliò verso la creazione dello Stato nazionale tedesco; le sintetizzò, essendo lui stesso parte di quella sintesi.
Nacque così quello che il geografo Friedrich Ratzel definì, con avventato orgoglio, «l’impero di mezzo» dell’Europa. Ma proprio quella posizione geografica, che Ratzel vedeva come la garanzia di una futura grandezza, era invece per Bismarck fonte di inquietudine; alla conquista di sempre maggiore «spazio vitale», preconizzata da Ratzel, Bismarck oppose la politica del «basso profilo», dichiarando che la Germania unita era ormai una potenza «soddisfatta», cioè inoffensiva. Il «cancelliere di ferro» voleva premunirsi contro il cauchemar des coalitions, l’incubo delle coalizioni: la Francia avrebbe sicuramente tentato di ricostruire un’alleanza come quella di Francesco I, con la Russia al posto dell’Impero ottomano. A un fautore del colonialismo tedesco in Africa, Bismarck disse: «Qui c’è la Russia e qui c’è la Francia, e noi siamo qui, in mezzo. Questa è la mia carta dell’Africa».
Sappiamo che cosa successe quando prevalse la politica dello «spazio vitale» e l’incubo di Bismarck si materializzò. Non c’è quindi da stupirsi se la convinzione di Richelieu che la sicurezza della Francia stesse nella frammentazione della Germania sia riemersa a Parigi (e non solo) nel 1945. Quando il Paese fu diviso in due, pare che François Mauriac abbia detto: «Amo talmente la Germania che sono contento che ce ne siano due». E quando, alla fine degli anni Ottanta, cominciò a profilarsi la possibilità di una riunificazione, François Mitterrand e Margaret Thatcher si ritrovarono per parlare di guerra: di come evitarla, certo, ma era chiaro che, per loro, l’ipotesi di una Germania unita si associava in modo quasi pavloviano all’idea di guerra.
Dopo le catastrofi del 1918 e del 1945, l’idea che una Germania isolata al centro del continente ed economicamente più forte dei suoi partner europei rappresenti una minaccia per i suoi vicini e per il resto del mondo — e quindi per sé stessa — è diventata poco per volta patrimonio dei vari governi tedeschi, fino a quello di Angela Merkel, che si sono adeguati a quel vincolo imprescindibile. Ma è sempre meno scontato che la cosa sia altrettanto chiara agli elettori, periodicamente chiamati a svolgere il ruolo di Zahlmeister dell’Europa, di «tesorieri» di un continente dalle tasche bucate. C’è il pericolo che non sappiano, gli elettori, che quel ruolo non è il prezzo dell’eterna espiazione per gli orrori del passato ma una sorta di polizza assicurativa contro i rischi derivanti dalla geografia e dall’economia del loro Paese.