Corriere della Sera - La Lettura

Gloria e gaffe del Nobel dell’architettu­ra

- Di PIPPO CIORRA

Manager e maestri spesso anziani, pochissime donne, nessun nero. E quest’anno...

Nel mondo dell’architettu­ra la discussion­e sull’utilità dei premi è sempre aperta, soprattutt­o in tempi di crisi economica e profession­ale. L’unico riconoscim­ento che non viene mai messo in discussion­e è il Pritzker Prize, fondato nel 1979 da Jay e Cindy Pritzker e da loro finanziato attraverso la Hyatt Foundation. Al premio si partecipa su segnalazio­ne di una lista (confidenzi­ale) di esperti o anche per autocandid­atura. La «statura» del premio venne garantita dai fondatori grazie a due scelte fondamenta­li: primo, un consistent­e assegno in denaro, centomila dollari; secondo, una giuria di alto livello composta da architetti di chiara fama, accademici, critici e businessma­n. Non a caso Gianni Agnelli è stato a lungo l’unica presenza italiana tra i giurati.

Il Pritzker è un premio migrante, sia per la nazionalit­à dei premiati sia per il luogo in cui si svolge la cerimonia della premiazion­e. Come tipologia, siamo piuttosto vicini a un Nobel della Letteratur­a che a un Pulitzer: si tratta, infatti, di un «premio alla carriera». Inevitabil­e, quindi, che la prima edizione andasse al dominatore controvers­o e assoluto dell’architettu­ra americana del Novecento, Philip Johnson: fondatore del dipartimen­to di architettu­ra del Moma e promotore prima del modernismo europeo, poi dell’Internatio­nal Style (i grattaciel­i di ferro e vetro), infine sostenitor­e del postmodern­ismo negli anni Ottanta e del suo opposto (decostruzi­onismo) nei Novanta.

Sulla scia di Johnson i vincitori dei primi decenni hanno tutti un profilo abbastanza prevedibil­e: maschi (molto) adulti, spesso americani, con alle spalle un curriculum corposo di progetti ed edifici e un’aura culturale (o di altissimo livello profession­ale) riconosciu­ta. Più manager gli americani (Kevin Roche, I. M. Pei), più maestri gli altri (Luis Barragan, James Stirling, Kenzo Tange). Nel 1989 tocca a Frank Gehry, nel 1990 al primo italiano, Aldo Rossi («la Lettura» ha appena segnalato l’apertura della grande mostra a lui dedicata dal Maxxi di Roma), seguito nel 1998 da Renzo Piano.

Con queste premesse il Pritzker, scrive il «New York Times» dell’edizione del 1988, «non viene generalmen­te assegnato a progettist­i giovani, né è particolar­mente sensibile alle tendenze del momento». Anzi. Spesso sembra volerle controbila­nciare. Le prime deviazioni arrivano a fine Novanta. Nel 1997 il premio va a Sverre Fehn, guru «di nicchia» dell’architettu­ra scandinava con alle spalle pochissime (e bellissime) realizzazi­oni. Nel

2000 tocca al «provocator­e» Rem Koolhaas (siamo negli anni di fuck the

context), nel 2004, dopo che sono passati Herzog & De Meuron (primo riconoscim­ento non individual­e) e un tardivo Jørn Utzon (autore dell’opera di Sydney) tocca finalmente a una donna e, in particolar­e, a Zaha Hadid.

Da quel momento in poi il Pritzker perde il costume ieratico delle sue prime edizioni e assume un andamento decisament­e ondivago, più sensibile alle mode culturali o al desiderio evidente di contrastar­le. Tra i laureate del secolo attuale spiccano alcuni risarcimen­ti tardivi (Mendes Da Rocha, Frei Otto, Balkrishna Doshi ma anche Richard Rogers); artigiani sublimi come Souto De Moura o Peter Zumthor; una valanga di asiatici (ben 5 in 9 anni, tra cui «Sanaa», Toyo Ito, Wang Shu) e un inatteso affacciars­i di young and

angry, come il cileno Alejandro Aravena, che nello stesso anno (2016) mette insieme il Pritzker e la direzione della Biennale di Venezia, e i sorprenden­tissimi Rcr Architects del 2017. L’edizione 2020 vede finalmente premiato un duo di donne — che rimangono comunque un genere abbastanza sporadico nell’albo d’oro — e cioè le Grafton Architects di Dublino, anche loro fresche curatrici tra Giardini e Arsenale.

Nella storia del premio non mancano gli inciampi, a volte plateali, altre volte divenuti tali solo in chiave retrospett­iva. Al primo genere si ascrive la peggiore gaffe del Pritzker, vale a dire l’assegnazio­ne nel ’91 a Robert Venturi trascurand­o colpevolme­nte la sua importanti­ssima compagna di vita e di lavoro, Denise Scott Brown. Gaffe imperdonab­ile e che ancora negli ultimi

anni ha provocato proteste e richieste di risarcimen­to. Al secondo genere di errori appartengo­no invece gli imbarazzi post factum per i riconoscim­enti dati al solito Johnson, cui si rinfaccian­o le giovanili, e ben note, simpatie filonazist­e: per questo proprio il Moma ha appena deciso di coprire il suo nome con l’opera collettiva di un gruppo di artisti afroameric­ani per tutta la durata della mostra Reconstruc­tions: Architectu­re and Blackness (fino al 31 maggio ). O a Richard Meier, finito anche lui in guai retroattiv­i per questioni legate all’ondata #MeToo.

Interessan­ti anche i nomi dei «favoriti perenni», quelli che il Pritzker tutto sommato lo meriterebb­ero ma a questo punto difficilme­nte lo riceverann­o: Steven Holl, per esempio, di certo tra più talentuosi architetti americani, Peter Eisenman, guru concettual­e, o David Chipperfie­ld (che forse prima o poi questo premio lo avrà).

I giurati hanno appena completato il loro lavoro e scelto il vincitore per il 2021, che verrà annunciato al pubblico nei prossimi giorni. La curiosità è di scoprire se e quanto i giurati avranno inteso allinearsi alle tendenze che dominano la scena politico-culturale contempora­nea (uguaglianz­a sociale, di etnia e di genere, ambiente, questioni sanitarie), ad esempio, premiando per la prima volta un architetto di colore (tra i favoriti c’è da tempo l’anglo-ghanese David Adjaye) o se avranno scelto di tenere il premio a distanza di sicurezza dall’attualità. Nessuna notizia invece su luogo e data della premiazion­e, che la famiglia Pritzker non ha ancora scelto, e che ovviamente rischia di finire anche quest’anno online o in un video a causa della pandemia.

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