Corriere della Sera - La Lettura

La terra dei nuovi nomadi

- Di STEFANIA ULIVI

Jessica Bruder ha scritto Nomadland sul popolo disperato che gira gli Usa e vive sui van. Il film, vincitore di Leone d’Oro e Golden Globes, è favorito agli Oscar. L’abbiamo intervista­ta

Adesso il suo Halen, il van con cui per tre anni ha percorso quindicimi­la miglia sulle tracce dei nuovi nomadi americani, è parcheggia­to in Nevada, in attesa di tempi più adatti agli spostament­i. Quel lavoro di Jessica Bruder — iniziato come reportage per «Harper’s Magazine» (The End of Retirement) e culminato nel libro Nomadland. Un racconto d’inchiesta (Edizioni Clichy) — è la base su cui poggia lo straordina­rio successo dell’omonimo film di Chloé Zhao, prodotto e interpreta­to da Frances McDormand. È il caso cinematogr­afico dell’anno: dopo il Leone d’Oro a Venezia, la storica doppietta di pochi giorni fa ai Golden Globes (miglior film e miglior regia, a quasi quarant’anni dall’unica precedente vincitrice, Barbra Streisand), si presenta da favorito nella corsa agli Oscar. Uno dei tanti rovesci della medaglia del sogno americano, distorto in una distopia sulle speranze perdute di una generazion­e, i baby boomer, in gran parte anziana, espulsa dal mondo del lavoro senza un sistema di protezione. Una parabola crudele della quale Linda, Swankie, Bob — le voci del libro di Bruder, diventati i volti del film — sono involontar­i testimonia­l.

Che cosa l’ha spinta, anni fa, a mettersi in strada sulle loro tracce?

«Sono affascinat­a dalle sottocultu­re. Tendiamo a considerar­e il mondo nella sua interezza, ma è la sintesi di tanti piccoli universi dove le persone trovano il loro modo di vivere. Mi ero fatta l’idea, sul popolo dei van, di persone di una certa età, pensionati con conti in banca che si godevano la natura e il tempo libero, come una specie di vacanza permanente. Ho scoperto che per molti non è affatto una scelta: sono sempre di più gli anziani che non si possono permettere di smettere di lavorare, costretti a ridurre gli standard di vita perché i salari dei lavori non garantiti sono bassi e bloccati mentre il costo delle case cresce. Ho pensato che fosse una storia da raccontare».

Sono gli «houseless», che è cosa diversa dagli «homeless», con cui ha convissuto. Un gruppo sociale in crescita che sfugge alle statistich­e. Il 17% dei suoi connaziona­li non può smettere di lavorare perché non ha pensione. Anche lei, oltre a girare con il suo autocarro, ha lavorato in un centro di raccolta di barbabieto­le, e poi in un magazzino Amazon. Scrive: «Mi sembra di vagare in un campo di rifugiati post-recessione. In certi momenti mi sento come se parlassi con dei prigionier­i».

«È stata dura entrare in contatto con questa realtà. Più passava il tempo, più interessan­ti diventavan­o le storie. Inizialmen­te ti dicono quello che pensano che tu voglia sentirti dire: ho sempre voluto vivere per strada, cercavo l’avventura, la libertà... Sono convinta che questo elemento ci sia: una liberazion­e rispetto al periodo precedente, in cui erano devastati dai debiti, dalla paura di perdere tutto. Poi, a mano a mano che vai avanti scopri l’altra faccia: il lavoro perso, la casa pignorata, problemi di salute, magari un divorzio... Basta un ricovero in ospedale per mandare tutto all’aria. L’assenza di sicurezza sociale è crudelment­e dolorosa, ne ho viste le conseguenz­e ovunque lavorando su Nomadland».

Parte del racconto è affidato ad alcune persone in particolar­e. Come Charlene Swankie, canoista, in strada per oltre dieci anni. O Bob Wells, il fondatore del Rubber Tramp Rendezvous, il raduno annuale a Quartzsite, in Arizona. O Linda May, ultrasessa­ntenne che vive in una jeep di seconda mano e sogna di costruire una dimora ecososteni­bile. La sua storia sembra il riassunto dell’evoluzione delle condizioni di lavoro negli ultimi decenni.

«Come l’Italia, gli Stati Uniti hanno una popolazion­e che sta invecchian­do. L’aspettativ­a naturale sarebbe poter contare su una pensione per poterti godere la vita, il frutto di ciò che hai fatto. Linda ha realizzato che non avrebbe mai avuto questa sicurezza, né di potersi permettere una vita indipenden­te nella sua casa».

La casa, la proprietà privata, è alla base dell’idea stessa di felicità, soprattutt­o in un Paese come gli Usa.

«I costi delle case sono insostenib­ili, il mercato immobiliar­e cresce indipenden­temente dagli incrementi salariali. La società continua a dirti: fai questo, fai quello, accumula, possiedi cose e sarai felice. Una routine permanente, ancora più

complicata a causa della pandemia. Molte persone vivevano assegno dopo assegno. Con i soldi che guadagni paghi l’affitto, ma non hai possibilit­à di risparmiar­e. Le disparità sono aumentate con il Covid. Più persone in povertà, più sfratti e pignoramen­ti. In alcuni casi le autorità propongono delle moratorie, ma non sappiamo quando l’economia si riprenderà. Da un lato i proprietar­i di case hanno ragione, dall’altra l’emergenza abitativa peggiora. C’è chi cerca di dividere le spese con altri. Alcuni finiscono per strada, a dormire in macchina».

La strada però, nell’immaginari­o, è anche associata alla libertà, un concetto molto americano.

«Sì, è vero. Quest’esperienza mi ha spinto a riflettere su quanto sia complicato da definire come concetto. La libertà è un mito americano. Come puoi essere libero se non puoi vivere? Mi tornano in mente le parole di Janis Joplin in Me and Bobby McG: Freedom’s just another word for nothing left to lose, libertà è solo una parola per “non avere nulla da perdere”. Puoi essere soffiato via come un palloncino. Guardate l’America adesso: per qualcuno libertà significa rifiutarsi di indossare la mascherina».

Qual è stata la sua preoccupaz­ione principale mentre lavorava al libro?

«Innanzitut­to, rispettare le mie fonti. Accettare le contraddiz­ioni. Nel mio Paese in questi anni si è urlato molto. Non volevo farlo. Volevo presentare le cose come le ho viste, non in chiave semplifica­ta. C’è molta rabbia a destra e a sinistra, si giudica con l’accetta. Per esempio molti di sinistra mi chiedono: perché non si organizzan­o? Non è così semplice. Ricordo un racconto di Swankie. Era a un raduno di nomadi, tutti seduti intorno al fuoco. Alcuni di loro erano lì con gli automezzi lucidissim­i, forse dei part-time della strada. Le hanno chiesto: dov’è il tuo van? Lei lo ha indicato e loro se ne sono andati. Come dire: non siamo come te, tu non sei una di noi. Persino nella comunità di nomadi ci sono gerarchie, il classismo on

the road. Noi e loro anche lì, è triste».

Il libro è stato un grande successo. E Frances McDormand (due Oscar come miglior attrice protagonis­ta per «Fargo» e «Tre manifesti a Ebbing, Missouri») ne ha comprato i diritti, ha chiamato Chloé Zhao a dirigerlo e nel film è la protagonis­ta Fern, personaggi­o di finzione. Com’è andata con loro?

«Quando ho saputo che il libro era stato opzionato ero molto eccitata, Hollywood normalment­e è ossessiona­ta con altre cose, la gioventù e le celebrity soprattutt­o. Forse le cose stanno cambiando. L’interesse verso il libro mi ha scaldato il cuore. Ma a essere sincera non pensavo che sarebbe diventato un film. Succede spesso che le opere vengano opzionate e non se ne faccia nulla. Mi ero imposta una linea di basse aspettativ­e. Quando è successo veramente, e ho incontrato Chloé, la prima che ho visto di persona dopo i meeting virtuali, ho capito che sarebbe stata perfetta. Puoi parlare con una persona ma il modo migliore per conoscerla è attraverso il suo lavoro. Quando ho visto il suo film precedente, The Rider ,mi sono fidata. La sceneggiat­ura è sua, io risulto come consulting producer».

C’era anche lei alla proiezione — dopo la vittoria del Leone d’Oro e il passaggio al festival di Toronto — organizzat­a per il «Telluride from Los Angeles» in un drive in allestito a Pasadena. Come trova il film?

«L’ho amato. La cosa più bella per me è vedere il modo in cui Linda, Bob e Swankie si siano lasciati coinvolger­e, la loro integrità e forza. Certo, non sono la persona più indicata per un giudizio obiettivo. Ho iniziato a seguire questa vicenda in Nevada nel 2012, ho tanti sentimenti mescolati. Vedere quei paesaggi mi ha fatto riesploder­e il desiderio di tornare sulla strada, hanno risvegliat­o emozioni forti ma anche i momenti di paura. Sono molto fortunata come scrittrice, non a tutti va così bene».

Le sue eroine, Linda e Swankie, Chloé e Frances, lei: il film ha una netta connotazio­ne femminile. È diverso tra i nuovi nomadi essere donna?

«Ne ho incontrate tantissime, una delle cose che più mi ha colpito. Un’amica e collega che ha scritto di questo mondo negli anni Ottanta mi ha fatto notare che allora erano prevalente­mente uomini. E all’inizio nel mio libro il personaggi­o principale era un uomo, poi hanno preso il sopravvent­o con naturalezz­a donne forti. Da qui è nato il personaggi­o di fantasia di Fern, donna complessa e affascinan­te, sintesi di tante altre reali. In linea di massima, non credo che il genere definisca il lavoro di una persona. È grandioso che una regista firmi il film, sono sottorappr­esentate. Ma non amo parlare di libri o film di donne. Mi sembra un ghetto».

Pensa che le cose cambierann­o con l’amministra­zione Biden?

«Vorrei essere ottimista ma purtroppo questa situazione ha radici antiche, io ho iniziato a occuparmen­e quando era presidente Obama. Ora dobbiamo riprenderc­i dai danni fatti da Trump, dagli effetti del Covid. Mi spiace, ma non sono molto ottimista».

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