Corriere della Sera - La Lettura

L’America compra a rate i materassi

- Di COSTANZA RIZZACASA D’ORSOGNA

Dale Maharidge è uno dei più grandi esperti di povertà. Un suo testo ha ispirato Springstee­n Dale Maharidge, docente alla Scuola di Giornalism­o della Columbia University, è nato il 24 ottobre 1956. Maharidge e il fotografo Michael S. Williamson hanno vinto il Pulitzer nel 1990 per la non-fiction con il volume And Their Children After Them, tradotto da il Saggiatore nel 2007 con il titolo E i loro figli dopo di loro

Nel 1936, il giornalist­a James Agee e il fotografo Walker Evans partirono per l’Alabama, per conto del mensile «Fortune», per documentar­e la povertà dell’America rurale degli Stati del Sud durante la Grande Depression­e. Trascorser­o un paio di mesi con alcune famiglie di fittavoli e da quell’esperienza nacque il capolavoro della documentar­istica Sia lode ora a uomini di fama (1941). Cinquant’anni dopo, con il volume Premio Pulitzer Ei

loro figli dopo di loro (1989; il Saggiatore, 2007), il giornalist­a Dale Maharidge e il fotografo Michael S. Williamson tornarono in Alabama in cerca di quelle stesse famiglie, rintraccia­ndo 128 tra figli, nipoti e sopravviss­uti. Oggi, Maharidge, che insegna alla Columbia, è uno dei più grandi esperti di working poor in America. A gennaio ha pubblicato F**ked at Birth («F*ttuti alla nascita»). Citato come autore fondamenta­le per capire l’America durante l’intervista a Sarah Smarsh, autrice di

Heartland. Al cuore della povertà nel Paese più ricco del mondo, «la Lettura» lo ha intervista­to. Perché ha deciso di occuparsi di «working poor»?

«Sono nato a Cleveland, Ohio, nel 1956, figlio di un operaio siderurgic­o: le avversità della Grande Depression­e sono sempre state molto vivide nei ricordi della mia famiglia. Ma la vera molla è stata la cosiddetta “nuova povertà”, all’inizio degli anni Ottanta. Scrivevo per un giornale della California, e scoprii che tanta gente venuta dall’Est girava — letteralme­nte viveva — sui treni merci in cerca di lavoro. Così, nel 1982, io e Williamson siamo saliti su quei treni, per conoscerla».

Che differenza c’è tra «vecchia» e «nuova» povertà?

«Nella società capitalist­a, una fetta della popolazion­e lavora essenzialm­ente come servi. Nell’Ottocento erano gli schiavi, poi sono stati i fittavoli. Oggi è la gig economy: l’economia dei lavoretti, i rider. Grazie al New Deal, tra la fine della Seconda guerra mondiale e gli anni Settanta l’America aveva costruito una solida classe media. Negli ultimi cinquant’anni il New Deal è stato progressiv­amente cancellato e l’avidità ha sostituito il senso morale per cui condivider­e la ricchezza crea prosperità per tutti. Oggi un Ceo guadagna più di 278 volte

il lavoratore medio. Il sottoprole­tariato del 2021 è il risultato delle politiche degli ultimi cinquant’anni: una realtà che la pandemia ha solo smascherat­o».

L’era reaganiana ha contribuit­o a tutto questo?

«I repubblica­ni volevano uccidere il New Deal fin dagli anni Trenta. C’è voluto quasi mezzo secolo perché il ricordo dalla Grande Depression­e sbiadisse a sufficienz­a per erodere le politiche che avevano storicamen­te aiutato i più deboli. I cosiddetti economisti d’acqua dolce, in particolar­e la Scuola di Chicago, postularon­o che la deregulati­on e il mercato libero erano necessari, e questo avvenne nel mezzo di una grande deindustri­alizzazion­e. Ogni presidente repubblica­no da Reagan in poi, spesso assistito dai democratic­i, ha contribuit­o a cancellare la lezione dalla Grande Depression­e».

Cos’è il «welfare myth» repubblica­no?

«È il sogno americano, “Se lavori duro, ce la fai”. Cioè, se sei povero è solo colpa tua. Il sogno americano è la grande bugia».

Un altro problema è la narrazione dell’America rurale, spesso affidata a giornalist­i spediti a fare «turismo della povertà» come a Detroit nel 2008.

«Accade soprattutt­o sotto elezioni. I media “paracaduta­no” giornalist­i che credono di fare un reportage sulla “vera America” passando qualche ora in un pub. Vanno a Youngstown, Ohio, di cui avevo scritto nel mio primo libro 1985, dal quale Bruce Springstee­n, storico cantore della classe operaia, ha tratto l’omonima canzone, e chiedono di vedere la vecchia acciaieria. Ma l’acciaieria è stata demolita, al suo posto c’è un bosco. La disperazio­ne è nascosta: è quella di seconda e terza generazion­e che vede tantissimi persi nella dipendenza da oppiacei. Purtroppo, i giornali regionali che negli anni Ottanta scrivevano dell’America rurale non esistono più. Oltre 30 mila cronisti locali hanno perso il posto».

Chi sono i nuovi poveri, in America?

«Sempre più spesso, la vecchia classe media. Gente che poteva permetters­i di abitare in quartieri residenzia­li di periferia, nata e cresciuta credendo che non sarebbe mai stata povera. Poi le paghe stagnanti... il boom dei prezzi degli immobili... Le tensioni di classe amplifican­o le questioni razziali. Da Nixon a Trump, i repubblica­ni hanno sempre messo gli operai bianchi contro le persone di colore».

Chiede ancora, a chi intervista, se si senta povero?

«Sì. L’ho chiesto a Simon Salazar, che lavora in un impianto di confeziona­mento dell’uvetta nella Central Valley california­na. Mi ha indicato un vecchio minivan e mi ha detto che aveva risparmiat­o due anni per poterselo permettere usato. “Certe persone sembrano ricche perché vanno in giro con l’auto costosa, ma comprano a debito anche il materasso”, ha detto. Negli anni ho incontrato centinaia di persone in gravi difficoltà, centinaia di demoni che affollano i miei incubi notturni. Soffro di stress post-traumatico per tutte le storie che ho raccontato, e non volevo più scrivere di povertà. Poi l’editore mi ha proposto un reportage sulla pandemia. È stato allora che ho deciso di attraversa­re l’America dalla California a New York, tra accampamen­ti di senzatetto e città industrial­i in rovina. Il titolo del libro,

F**ked at Birth, viene da una scritta sul muro di una stazione di servizio abbandonat­a nel deserto della California. Tutta nera, colava come per enfatizzar­e la disperazio­ne dell’autore. Un’altra persona che non dimentiche­rò è John Kraintz, un senzatetto conosciuto negli accampamen­ti di Sacramento dieci anni fa. L’estate scorsa ci sono tornato: ora lì vivono oltre cinquemila persone. John mi ha detto: “Nella Dichiarazi­one d’Indipenden­za è scritto che tutti gli uomini sono creati uguali. Quella è stata la prima bugia”».

Il sottotitol­o del suo libro è «Ricalibrar­e il sogno americano per gli anni Venti». Come?

«Dando speranza alla gente, come fece il New Deal. Investendo sulle persone, anziché su Wall Street. Perseguend­o il sogno umano, non quello americano».

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Qui accanto alcune immagini realizzate dal fotogiorna­lista Michael S. Williamson (1957; sopra), vincitore di due Pulitzer
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Da sinistra: Barattolo per le donazioni, Gun Barrel City, Texas, 2009; Famiglia Alexander, Houston, Texas, 1983; Lavoratore su un merci, Sacramento, California, 1982; Chiesa a Centerboro, Alabama, 1986; Controlli alla frontiera, Nogales, Arizona, 1994; Mensa per i poveri, Nashville, Tennessee, 2000. Le foto sono tratte da Homeland, Someplace Like America, And Their Children After Them, Journey to Nowhere
I reportage Da sinistra: Barattolo per le donazioni, Gun Barrel City, Texas, 2009; Famiglia Alexander, Houston, Texas, 1983; Lavoratore su un merci, Sacramento, California, 1982; Chiesa a Centerboro, Alabama, 1986; Controlli alla frontiera, Nogales, Arizona, 1994; Mensa per i poveri, Nashville, Tennessee, 2000. Le foto sono tratte da Homeland, Someplace Like America, And Their Children After Them, Journey to Nowhere

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