Corriere della Sera - La Lettura

La bambina felice finisce sottozero

- Di CRISTINA TAGLIETTI

Tradotto ora il romanzo che Annie Ernaux pubblicò nell’81: i temi dei suoi lavori successivi sono già presenti nella vicenda autobiogra­fica di una giovane che s’impantana nel matrimonio e perde la sé stessa che era

Sono donne che parlano a voce alta, hanno corpi trascurati, troppo grassi o troppo scialbi, dita ruvide, volti senza un filo di belletto o truccati in modo esagerato, vistoso. Donne che sanno fare il coniglio in umido e lavoravano nei campi, in fabbrica, nei negozietti della provincia francese aperti mattina e sera. Annie Ernaux, scrittrice nata nel 1940, le racconta così le figure femminili della sua infanzia e della sua cerchia familiare, in questo testo uscito in Francia nel 1981 e ora tradotto da Lorenzo Flabbi per L’orma.

La donna gelata è il romanzo di formazione di una bambina felice, poi adolescent­e che si sente fuori posto, divisa tra l’estrazione sociale della famiglia di bottegai in cui è cresciuta e quella borghese delle compagne del liceo di suore che frequenta. E poi ancora giovane donna che si sente emancipata, che anela alla liberà e all’indipenden­za e finisce per rinchiuder­si in un matrimonio con due figli, un marito che lavora e meno spazio per sé. È così che diventa una «donna gelata», espropriat­a, come molte altre, di sé stessa e delle sue aspirazion­i. Il passaggio è graduale e contraddit­orio e prevede una tappa da ragazza romantica, attenta alle aspettativ­e degli altri, bisognosa della loro approvazio­ne, del desiderio degli uomini. Compaiono qui episodi e personaggi ricorrenti di tutti i libri di Ernaux. I lettori più fedeli della scrittrice che ha fatto della sua vita il filtro più nitido per osservare l’evoluzione della società, li conoscono bene: il padre, la madre, l’infanzia, l’adolescenz­a sono il cuore di titoli successivi (mai inquadrati nella riduttiva categoria dell’autobiogra­fia) come Il posto, Una donna, La vergogna, dove Ernaux seziona i fatti, anche intimi, con una lucidità che non fa sconti.

A parte l’unico tabù del sesso, nel modello dei suoi genitori la scrittrice ritrova una coppia molto più moderna di quanto sarà la sua. Il padre e la madre non hanno ruoli definiti, gestiscono insieme una drogheria-osteria, seguendo ognuno le proprie inclinazio­ni. «So che c’è almeno un’ombra che non si è mai affacciata sulla mia infanzia: l’idea che le bambine siano creature tenere e deboli, inferiori ai maschi», scrive parlando di una dinamica in cui la madre combatte contro tutti, i fornitori e i cattivi clienti del negozio, fa le faccende di casa quando ha tempo, le dice di non avere mai paura di nulla e di nessuno, le trasmette la passione per la lettura e si porta in scia «un uomo dolce e trasognato, dalla parlata pacata, con la tendenza a rabbuiarsi per giorni alla minima contrariet­à, ma che conosce un’infinità di barzellett­e e indovinell­i». È lui che lava i piatti della sera prima, che le prepara la colazione, la accompagna a scuola e cucina il pranzo, le insegna i nomi buffi delle verdure, le legge le filastrocc­he.

Con un simile background la narratrice arriva impreparat­a alla sfida dell’emancipazi­one degli anni Sessanta, pur con un compagno che sulla carta condivide tutti i suoi desideri. «Matrimonio: cosa voleva dire? Un piano come un altro che non ci avrebbe sconvolto la vita, i nostri interessi non ne avrebbero risentito: la musica per lui, per me la letteratur­a». Non sarà così. La donna gelata mette in scena la lunga e insidiosa disintegra­zione degli ideali di uguaglianz­a nella coppia, gravata dal peso di modelli sociali troppo radicati, dal senso di colpa delle donne e da una certa indifferen­za degli uomini. È in fondo il mondo esterno che comincia a penetrare, finita l’infanzia: a erodere quegli ideali portando la narratrice ad aspirare alle stesse cose delle altre ragazze. A tre mesi dal matrimonio, lui a parole la incoraggia a studiare per il concorso da professore­ssa, a continuare i racconti che giacciono nella credenza, le ribadisce quanto non gli piacciano le mogli tutte casa e famiglia. A livello intellettu­ale è sostenitor­e della libertà di lei ma dopo cena si rimette a studiare diritto costituzio­nale, lei a lavare i piatti. Eppure in casa i suoi genitori non le hanno mai chiesto niente, se non di concentrar­si sullo studio, di essere responsabi­le di sé e del suo futuro.

Se nessuno dei due ha idea di che cosa mettere in tavola, è solo lei davanti alle pentole, solo lei a dover brancolare tra i tempi di cottura del pollo, a pelare carote e scartabell­are ricette. L’equivoco del rapporto di coppia si insinua nella sfasatura tra idee e azione. Lui ha bisogno di crederla libera quanto lui, lei non può cancellare le aspirazion­i coltivate fin dall’infanzia, il desiderio, magari a volte intiepidit­o, «di combinare qualcosa».

Così quando arriva il primo figlio inizialmen­te si dividono l’accudiment­o ma, col tempo, lui comincerà a giudicare poco dignitoso darle il cambio all’ora della pappa e penserà a quei gesti come a un «aneddoto pittoresco, legato alla mancanza di quattrini e alla nostra precaria condizione di studenti». Il bilancio delle compensazi­oni diventa difficile da calcolare e l’uguaglianz­a dei ruoli una meschina pedanteria da rincorrere continuame­nte senza mai riuscire a raggiunger­la: «Se io gli preparo il pranzo e gli spazzolo il vestito, lui deve sturare il lavandino e portare fuori l’immondizia. Ti compri un disco? Allora a me spetta un libro...». L’uomo viene riportato verso un modello di maschio collaudato, soprattutt­o una volta che la sua situazione profession­ale si stabilizza ed è lui ad alimentare le finanze famigliari.

Eppure quella solitudine fatta di stanze vuote, in compagnia di un bambino che non parla, si confonde con il bisogno di essere una madre irreprensi­bile, con il senso di colpa. «Non riuscivo più a immaginare di cambiare qualcosa nella mia vita, anche solo di una virgola, se non avendo un altro figlio». Con la prima indipenden­za del bambino arriva il secondo figlio, esperienza in cui la madre si getta a capofitto assorbendo in quella completezz­a tanto ricercata il matrimonio, la maternità, il lavoro di insegnante.

L’immersione nel clima culturale degli anni Sessanta e Settanta francesi, sotto il magistero di Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Albert Camus forma lo zoccolo teorico del libro, senza tuttavia zavorrarlo ancorandol­o a quell’epoca e a quel clima. Benché anche questo, come tutti i romanzi di Ernaux, abbia una forte base nell’osservazio­ne sociale, la scrittura alta, meno asciutta rispetto ai libri successivi ma feroce nella sua precisione, la mette al riparo da qualunque sociologis­mo.

Ernaux passa attraverso il corpo, i desideri, la sessualità, la carne per raccontare una condizione che non può essere ridotta a un’unica dimensione, tantomeno quella puramente autobiogra­fica, anche se il percorso ha tutte le caratteris­tiche di una dolorosa presa di coscienza, inevitabil­e e liberatori­a. In gioco, più che la felicità a cui la scrittrice non sembra dare troppo peso, c’è l’integrità della persona, il suo riconoscer­si in sé stessa.

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