Corriere della Sera - La Lettura

Ho scoperto che Roma è mio padre e mia madre

- Di PAOLO LEPRI

Manuel Vilas dedica alla città italiana un volume di versi appena uscito in patria. Il narratore di «In tutto c’è stata bellezza» si perde nella capitale e ne approfitta per una sorta di autoanalis­i. Un pellegrina­ggio esistenzia­le «Mi assaltano i demoni del presente, del passato e del futuro» dice l’autore, che però sente aria di famiglia: «Molto stile e poco denaro»

Eccolo di nuovo alla prova, il «realismo intimo» di Manuel Vilas. Ma al discorso autobiogra­fico, ai sentimenti profondi dello scrittore, al suo rapporto con la vita (i tre elementi di quella «etichetta» da lui stesso condivisa) si unisce questa volta il viaggio in una città che diventa — nella sua eterna, sofferente grandezza — il luogo dov’è possibile, come ha osservato Juan José Millás, «tentare di incontrars­i con la propria anima».

La città è Roma, «la regina del mondo,/ la sovrana della coscienza». E Roma (uscita in Spagna per Visor) è il titolo di questa raccolta di versi, legata ad una permanenza di vari mesi nella capitale italiana su invito dell’Accademia di Spagna, con cui l’autore di In tutto c’è stata bellezza edi La gioia, all’improvviso, romanziere e poeta, prosegue il consueto percorso di chi cerca la verità su di sé. «Nel dormivegli­a di questa casa romana in cui vivo / mi assaltano i demoni del presente, del passato e del futuro».

Non bisogna credere, però, che la città dove Vilas arriva in una sera d’inverno, con un’ingombrant­e valigia che contiene tutto il suo io, sia solo un pretesto per una sorta di autoanalis­i poetica.

La forza di questo libro sta invece nella capacità di filtrare le emozioni attraverso la muta eloquenza dei luoghi. Non è un narratore che vede senza essere veduto. È un uomo, un uomo in carne e ossa, che guarda insieme agli altri, che si sente un turista non casuale: la Cappella Sistina, il Colosseo, Piazza Navona, via Condotti, ma anche il mercato di Porta Portese, i filetti di baccalà, i supplì, e, perché no, i «marciapied­i pieni di buche, le zanzare, i mendicanti». La chiave di tutto è che le città «sono invenzioni degli uomini» e, come gli esseri umani che le hanno create, appaiono «artificial­i e spaventate».

La lettura di Roma è meno struggente — per fare un esempio «classico» — di quella, venata di dolcezza, compiuta oltre sessant’anni fa da Pier Paolo Pasolini. È meno riflessiva di quella del tedesco Durs Grünbein, un altro conoscitor­e di questi luoghi, che il suo Schiuma di quanti appena pubblicato da Einaudi, annusa l’«aroma amaro» della polvere del Foro chiedendos­i che cosa alla fine rimanga della storia.

Il poeta delle Ceneri di Gramsci rientrava a casa la sera per i viali del Gianicolo (proprio dove anche lo scrittore spagnolo ha abitato nel suo periodo romano), stupito per i «diademi di lumi che si perdono,/ smaglianti, e freddi di tristezza/ quasi marina». Manuel Vilas, al contrario, alza più raramente lo sguardo verso l’orizzonte. Preferisce specchiars­i nella città: «Mi ricordi la mia famiglia,/ mio padre e mia madre./ Molto stile e poco denaro./ Roma, sei mio padre e mia madre».

Il pellegrina­ggio esistenzia­le che questo libro racconta (contiene un capitolo fiorentino e uno pugliese, frutto di due rapide «infedeltà» alla capitale) acquista un’inattesa dimensione romanzesca con il diffonders­i dell’emergenza sanitaria. Le città si svuotano mentre «l’epidemia governa l’Italia». Fontana di Trevi, sempre circondata da folle di visitatori, ora «è stata lasciata sola con me».

Si parte, si torna a Madrid passando per Mosca. Il «rimpatrio» diventa subito ricordo: «Penso ai tuoi angeli e ai tuoi dei./ Penso che la tua solitudine e la mia/caddero profondame­nte innamorate/ai piedi delle stelle». Ma anche molto di più di un ricordo.

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