Corriere della Sera - La Lettura
Il futuro può puntare su Abramo
L’algerino Boualem Sansal firma un romanzo distopico che evoca, senza nominarlo, un totalitarismo islamico. «Per convivere si deve combattere il pessimismo. Così...»
Gli abitanti di Erlingen — linda cittadina tedesca un tempo opulenta e serena nelle proprie certezze teutoniche — aspettano un treno che dovrebbe sottrarli al nemico, ormai alle porte. Un’attesa infinita che oscilla come un pendolo tra il desiderio buzzatiano di combatterlo finalmente, il nemico, e l’opposta tentazione di abbandonarsi a lui, questo Godot inconoscibile eppure già capace di proiettare il proprio potere sui viventi, tanto da indurli a una metamorfosi dell’anima, in preparazione di un’inevitabile sottomissione.
Kafka, Beckett, Buzzati: Boualem Sansal attinge a piene mani — e apertamente lo dichiara — dai capolavori della letteratura novecentesca per raccontare la storia di una ricca dinastia a cavallo tra Germania e Francia (con una puntata anche negli Stati Uniti) in un tempo distopico alla vigilia della caduta dell’intera Europa sotto il giogo di misteriosi quanto spietati conquistatori: «La guerra, se è una guerra e non un’epidemia, si è propagata nel mondo a una tale velocità da rendere legittimo dire che è già persa dagli uni e vinta dagli altri, e gli altri non siamo noi, che oscilliamo tra la bandiera bianca e il “si salvi chi può”». Il nuovo romanzo dello scrittore algerino — Il treno di Erlingen (Neri Pozza), una sorta di antefatto rispetto a 2084. La fine del mondo, uscito nel 2015 — proietta i lettori in un’atmosfera di precarietà esistenziale, di incontro-scontro con una realtà ineluttabile, la conquista da parte di una cultura più forte «che sa e vuole ancora combattere», perché incastonata nella Storia. Per dirla con Primo Levi, «è accaduto, perciò accadrà ancora».
Sansal ci risponde via Skype dalla sua casa nei pressi di Algeri, inondata da una luce diafana, intensa, che fa presagire un’estate precoce. Dietro allo scrittore settantunenne, i lunghi capelli argentei raccolti in una coda, una libreria a muro affollata di volumi.
È davvero questo il nostro destino? Finire preda di una civiltà che non è difficile identificare con l’islam?
(Sorride) «Io non conosco il futuro, naturalmente. Però cerco di immaginare una possibile realtà partendo dalle mie conoscenze del passato e del presente. Ora io vedo un’Europa indebolita che arriva al punto di censurare gli avvenimenti di cui è stata protagonista (pensiamo alla vicenda delle statue dei “colonialisti”) in omaggio a un ecumenismo destinato al disastro. Perché non tiene conto delle intenzioni di chi si trova di fronte».
Il romanzo è ambientato soprattutto in Germania e in Francia. Perché?
«Perché, in Europa, sono le nazioni più vulnerabili. Mi hanno fornito uno scenario ideale per la storia che ho immaginato e che, in effetti, ora che mi ci fate pensare, avrei dovuto scrivere prima di (ride). In Francia e in Germania, come sappiamo, sono presenti importanti comunità islamiche. E i problemi che questi due Paesi si trovano ad affrontare, meglio: le contraddizioni che stanno trasformando il loro contratto sociale, sono chiaramente generate dalla compresenza di una cultura inassimilabile che rifiuta leggi e consuetudini degli ospiti».
Nel suo romanzo il nemico, che nessuno peraltro incontra direttamente, sembra offrire la salvezza soltanto di fronte a un atto di sottomissione. Cosa che ci riporta alla storia dell’espansione islamica e alla lotta secolare con la civiltà giudaico-cristiana radicata in Europa. Possibile che ci troviamo di nuovo in questa situazione?
«I rapporti tra islam e cristianità naturalmente non sono stati soltanto conflittuali. Ma, storicamente, nei secoli, è stata la guerra a definire limiti e confini tra i due universi. L’islam come sappiamo non è un monolite. Al contrario: non ha un centro paragonabile al papato. Ma si riunisce nell’idea revanscista di restituire all’Europa i torti veri o presunti subiti nel passato: le Crociate, la colonizzazione, la conquista di Gerusalemme e della Palestina. Gli immigrati, che le nazioni del Vecchio Continente hanno accolto a partire dal secondo dovicenda