Corriere della Sera - La Lettura
La brigantessa incontra la patria
Giuseppe Catozzella rievoca Cicilla, condannata a morte nel 1864 e graziata
ATorino, nel Museo di antropologia criminale dedicato a Cesare Lombroso, è conservata una fotografia di Maria Oliverio, detta Cicilla, la più famosa delle brigantesse calabresi: moglie di Pietro Monaco, condannata a morte nel 1864 dal tribunale speciale di Catanzaro con capi d’imputazione che andavano dal sequestro di persona all’omicidio, venne graziata da Vittorio Emanuele II e la pena commutata in ergastolo da scontare ai lavori forzati, probabilmente presso la fortezza di Fenestrelle in val Chisone. Lombroso, approfittando della sua posizione di ufficiale medico, aveva studiato approfonditamente il brigantaggio femminile come forma particolare di devianza legata a tratti fisiognomici mascolini: Cicilla ne divenne ben presto l’emblema più perfetto.
A questo personaggio, sospeso tra storia e leggenda, Giuseppe Catozzella dedica il suo nuovo libro, Italiana, da cui emerge una accurata ricostruzione del cosiddetto «brigantaggio». Su questo fenomeno permangono infatti, dal punto di storico, ancora molte domande e punti oscuri: da subito etichettato dal nuovo governo unitario come manifestazione delinquenziale, fu affrontato come problema di ordine pubblico, perseguito con tribunali speciali, con strumenti mili
tari e procedimenti sommari, negando alla ribellione qualsiasi valore politico. Solo con la legislazione Gullo, tra il 1944 e il 1946, si cercò di risalire alle cause storiche ed economiche della protesta meridionale, avviando quella riforma agraria e quella redistribuzione delle terre che — promesse ottant’anni prima da Garibaldi — erano rimaste lettera morta e avevano contribuito (insieme a una leva militare durissima e a soprusi secolari) a scatenare i quattro anni di guerra civile che tra il 1861 e il 1864 insanguinarono la Calabria e tutto il sud Italia.
Nella più rigorosa tradizione del romanzo storico, Catozzella recupera precise vicende (la battaglia di Sapri, la spedizione dei Mille, l’assedio di Gaeta) e figure (da Maria Oliverio a suo marito, da Garibaldi al generale Sirtori fino a Virginia Gullo, nonna del futuro ministro), integra documenti storici e ricostruzioni più o meno plausibili, restituendo il ritratto di un’epoca e di un luogo in cui neanche le terre incolte erano di uso pubblico. D’altro canto, la dimensione letteraria del briganvista
taggio emerse fin da subito, con il racconto-inchiesta pubblicato nel 1864 da Alexandre Dumas sulla rivista «L’indipendente»: è a questa che Catozzella si appoggia, senza tuttavia mai cadere nel tranello di trasformare i briganti in novelli Robin Hood o di assecondare la leggenda che faceva di Cicilla una donna terribile e ferina, una specie di mostro della Sila.
Piuttosto l’autore segue i suoi personaggi in tutte le loro vicende, dall’infanzia alla cattura, e interpreta le proteste meridionali non tanto nel segno di un’appartenenza filo-borbonica di chi ritiene illegittima l’occupazione sabauda, quanto piuttosto come frutto di delusione di chi aveva creduto alle promesse garibaldine: Pietro si arruola infatti volontario tra i Mille e vive la successiva occupazione sabauda come un tradimento dei suoi ideali.
Proprio intorno al «tradimento» (quello politico, quello storico, quello personale) ruotano anche le vicissitudini di Cicilla, destinate a trasformarla da giovane tessitrice in vera e propria figlia del bosco. È l’insegnamento che le consegna la zia Maddalena, quello di «diventare come il bosco, che si riprende ciò che è suo» e di muoversi come i semi del larice, che «in silenzio usa il vento per scappare». Infine Catozzella regala a Cicilla un epilogo grandioso: in assenza di documenti relativi al destino di Cicilla dopo la grazia (sulla sua reclusione a Fenestrelle non ci sono in effetti evidenze storiche), si apre per l’autore lo spazio dell’immaginazione e la libertà di legare a doppio filo l’educazione sentimentale di questa giovane all’educazione politica di una intera generazione.