Corriere della Sera - La Lettura
Trieste, o cara Svevo non è solo
Diego Marani celebra la ventura di vivere ospiti di una città dai molti destini
Convergono più piani di lettura nel nuovo romanzo di Diego Marani, La città celeste, affidato alla prima persona come un diario, costruito attorno a una vicenda di formazione e di apprendistato sentimentale negli anni cruciali dell’università, attraversato da una riflessione metaletteraria sui libri, la lettura e la scrittura. Ma voltata l’ultima pagina, l’impressione più forte è la dichiarazione d’amore per Trieste, preannunciata dai versi di Saba dedicati alla città posti in esergo.
L’io narrante, matricola alla Scuola di Interpretariato appena riconosciuta facoltà universitaria, vi arriva in una luminosa mattina d’ottobre, intriso di suggestioni liceali, l’irredentismo studiato sui libri e una gita a Redipuglia con «esaltazioni dannunziane». Corre l’anno 1978, come rivela un dettaglio interno, e lui sta scappando da Ferrara, dall’opprimente supervisione di un padre accademico ossessionato dal terrore di precipitare nel baratro della non autosufficienza, e dal proprio destino, come chiunque studi lingue e cerchi, attraverso un idioma diverso, di sfuggire alla propria sorte. Sottobraccio ha il Canzoniere di Saba e La coscienza di Zeno di Svevo e poco importa se a prima vista l’ex porto asburgico gli appaia marziale e abitato per lo più da vecchi: non ci vorrà molto a capire che pure le città sono donne di cui ci si innamora, impossibili da dimenticare.
Da quel momento in avanti si consuma l’iniziazione dell’anonima voce narrante e ognuno degli studenti con cui condivide le stanze di un appartamento in via San Nicolò, in subaffitto da una signora austriaca, cambia almeno un poco il suo modo di vedere le cose: Chris l’inglese senza braccia, che per esorcizzare la disabilità va a sciare, gioca a calcio e mette su una squadra di terza categoria; Benni, il perfetto organizzatore, che nel giro di un’ora allestisce una festa come se l’avesse curata per giorni; gli ospiti occasionali che vanno e vengono. E poi c’è l’apprendistato sentimentale, tutto venato di suggestioni letterarie e dunque destinato in partenza al fallimento, affidato svevianamente a due sorelle slovene. Sedotto dalla seconda, studentessa dell’ultimo anno di superiori, con cui consuma lunghe telefonate nelle cabine a gettoni e intensi pomeriggi di passione, proprio alla maniera di un inetto sveviano, lui pur di non lasciarla rinuncia a partire per Londra e a perfezionare l’inglese e ne viene poco dopo abbandonato.
In mezzo a una folla di personaggi che mettono in scena una commedia umana variopinta, alle prese con un’idea di futuro che, pur nella precarietà del presente, è ancora tutto davanti e perciò da tenere lontano, in primo piano c’è sempre lei, Trieste, con i suoi scorci mozzafiato, le bettole dimesse e l’aria di frontiera. Che qui si fa dimensione esistenziale prima ancora che geografica, metafora di scelte mai definitive, desiderio di provvisorietà e rifiuto di appartenenza, metamorfosi incessante, paradossalmente capace di trasformare la mancanza di approdo in un punto fermo, «una promessa di altrove, una terra di nessuno dove rimane imprigionata l’eternità».