Corriere della Sera - La Lettura
Ma a volte il museo diventa un Carnevale
Opere d’arte a bassa intensità. Utilizzati per la promozione di canzoni in televisione, i videoclip contaminano istanze cinematografiche e divulgative. Puro cinema-azione, basato su dissonanze, su rapidi stacchi e sul ricorso a tecniche sofisticate di montaggio. Eventi di intrattenimento, da fruire distrattamente. Collegando un commento audiovisivo a una colonna sonora, questi esercizi di musica cromatica nascono dai brani, ma i brani sono solo tracce di partenza, cui vengono associate suggestioni libere. Da qualche anno questo inter-genere sembra stia tentando di nobilitarsi. Si tratta di un fenomeno che va letto fuori da certi pregiudizi, facendo affiorare, però, differenze e rischi.
Giorni fa, su YouTube, è stato pubblicato il videoclip di Voglia, che il cantante neomelodico Andrea Sannino ha ambientato nelle sale del Museo nazionale di Capodimonte di Napoli: per conquistare l’amore della sua donna, recita versi melodrammatici («Voglia ’e fa ammore cu’tte/ voglia, che voglia, pecché?/ sempe sta smania ’e capi/ ma ’o core vó accussì…»), sullo sfondo dei capolavori della Collezione Farnese. Con un effetto straniante (che ha suscitato accese polemiche), una situazione di corteggiamento degna delle sceneggiate di Mario Merola si svolge davanti alla Flagellazione di Caravaggio, all’Antea di Parmigianino, al Paolo III con i nipoti e alla Danae di Tiziano.
Qualche mese fa. Mahmood sceglie la Galleria dei Re dell’Egizio di Torino come set di Dorado: la danza hip hop del rapper si muove tra statue, sarcofagi e sfingi. Estate 2018. Beyoncé e Jay-Z girano al Louvre Apeshit, passeggiando tra la Nike di Samotracia, la Gioconda di Leonardo, il Ritratto di una donna nera di MarieGuillemine Benoist e La zattera della Medusa di Théodore Géricault. Pochi mesi dopo, sempre 2018. Marco Mengoni ambienta Hola tra le sontuose stanze del Palazzo Madama di Torino. Infine, 2016. Il videoclip di Oh Man di Jain è una performance dentro il Museu Nacional d’Art de Catalunya di Barcellona.
Sono alcuni episodi di una tendenza che potremmo leggere mettendo in luce intenzioni comuni e alcune differenze. Sulle orme di quel che hanno fatto grandi cineasti (per esempio Godard, Bertolucci, Sokurov), diversi cantanti adottano i musei come location dei loro videoclip. A qualcuno ricorderanno i mercanti nel tempio di cui si parla nel Vangelo. In consonanza con una consuetudine molto diffusa tra gli artisti contemporanei (da Hirst a Koons, a Fabre), sembrano entrare nelle sale del Louvre, di Capodimonte o dell’Egizio con lo stesso atteggiamento di coloro che fanno ingresso nei salotti della buona società. Cercano così di legittimare culturalmente operazioni di taglio commerciale. E, tuttavia, ambientando un brano pop «in dialogo» con i resti antichi o con i quadri del Rinascimento o del Barocco i cantanti propongono disinvolte operazioni critiche: ardite forme di ri-locazione.
Per un verso, essi si «limitano» a filmare i capolavori di Leonardo, di Tiziano e di Caravaggio o i reperti archeologici. Con accenti diversi. Talvolta, trattano quei materiali come sontuose scenografie dentro cui snodare storie e personaggi (Mahmood, Mengoni, Jain). Altre volte attribuiscono ai tesori dei secoli passati specifiche funzioni retoriche, simboliche, ritmiche: non meri corredi né sfondi, ma segni significanti, dotati di una propria individualità, posti al centro dello sviluppo drammaturgico (Beyoncé e Jay-Z). Per un altro verso, i cantanti arrivano a ri-attivare, a ri-scrivere e a ri-semantizzare alcune celebri icone del canone visivo occidentale, donando a esse inedite possibilità espressive e inesplorate dimensioni. Inaugurano, così, nuovi scenari, nuovi rituali, in un gioco di permanenze e di rimodulazioni.
Tra gli approdi possibili di queste ibridazioni: far scoprire frammenti del nostro patrimonio a un pubblico di giovani. Possiamo cogliere queste nobili intenzioni soprattutto in Apeshit di Beyoncé e Jay-Z e, in parte, in Dorado di Mahmood.
Un discorso a sé merita Voglia di Sannino. Un caso esemplare per riflettere sulle differenze tra valorizzazione e «plebeizzazione» della cultura. Da un lato, un’esperienza fondata su studio, approfondimento e serietà tesa alla promozione della conoscenza della storia. Dall’altro, la minaccia della banalizzazione. In Voglia, ecco il Rinascimento e il Barocco in abiti kitsch. I dipinti di Tiziano e di Caravaggio vengono decontestualizzati, deformati, cromaticamente alterati, con soluzioni addirittura fumettistiche, che potremmo accostare a film come Song e’ Napule e Ammore e malavita dei Manetti Bros (senza ironia, però). Una «carnevalata» di dubbio gusto, dissonante rispetto all’identità della pinacoteca napoletana. Una messinscena poco elegante, che pone problemi e insinua domande. Certo, un museo è un luogo democratico, per tutti e di tutti, ma è anche una realtà che esige cura e rispetto. Chi ne è direttore ha la responsabilità critica di vigilare sulla qualità dei contenuti e dei trattamenti dei prodotti legati a quell’istituzione (siti, App, spot, video, pubblicità, programmi televisivi). Inoltre, è suo dovere controllare il modo in cui sculture e quadri vengono comunicati. Qual è, occorre chiedersi, il senso profondo di una simile «mascherata»? E, soprattutto, che beneficio «didattico» ne trarrà Capodimonte? La risposta più chiara è stata data da una insegnante che, parlando di Voglia ,inun post su Facebook, ha scritto: «Ho fatto vedere Voglia a una scolaresca di liceo. Dopo, ho chiesto agli studenti se sono rimasti affascinati dalle opere e magari contano di andare a Capodimonte. Un no corale è stata la risposta».
Dunque, videoclip e musei. Un intreccio stimolante e, spesso, rivelatore. Un’opportunità inattesa. Per accostare mondi diversi e lingue non contigue: civiltà lontane e postmodernità, pratiche antiche e media contemporanei. Evitando, però, superficialità e degenerazioni. Il fantasma del kitsch incombe sempre.