Corriere della Sera - La Lettura
Turi Ferro «tutto teatro»
Strehler lo definiva così, per la passione e l’abnegazione sul palco. A cent’anni dalla nascita ea venti dalla scomparsa lo celebrano uno spettacolo a Roma, diretto dal figlio, e una mostra a Catania
La prima volta che allestì Servo di
scena di Ronald Harwood era il 1993 e dirigeva suo padre Turi Ferro protagonista dello spettacolo. Ora il regista Guglielmo Ferro sta lavorando a una nuova edizione dell’opera che, Covid permettendo, potrebbe andare in scena a fine marzo o dopo Pasqua al Teatro Quirino di Roma, con Geppy Gleijeses nel ruolo principale: «Noi ci prepariamo — azzarda fiducioso il regista — e, se la situazione pandemica non si aggrava, saremo pronti per debuttare: sarà un modo per celebrare il centenario della nascita di mio padre e i vent’anni dalla sua scomparsa». E proprio per il centenario, lo Stabile di Catania ha allestito una grande mostra dedicata all’attore (nato a Catania il 10 gennaio 1921 e morto a Sant’Agata li Battiati, Catania, l’11 maggio 2001), aperta al pubblico e curata da Sarah Muscarà ed Enzo Zappulla.
Una famiglia di teatranti, quella cui appartiene Guglielmo Ferro: la madre, scomparsa nel 2013, era Ida Carrara, che a sua volta discendeva da una dinastia artistica riconducibile a Luigi Pirandello. E persino la sorella Francesca è attrice. «Sì, un destino segnato — ammette —. Vedere recitare insieme mio padre e mia madre era una goduria. Ricordo quella volta che, nei Malavoglia, mamma doveva morire in scena e papà, nel ruolo di Padron ’Ntoni, mentre lei scendeva le scale in fin di vita recitando il suo monologo, non essendo soddisfatto della performance, le suggeriva in diretta come muoversi, sussurrandole: “Spostati un po’ a destra... ora spostati un po’ a sinistra...”. Mamma a un certo punto sbotta e, nonostante la presenza del pubblico in sala, esclama: “Lasciami morire in pace!”».
Un carattere difficile, quello di Turi, da indomabile mattatore.
«Eccome no? Non fu facile convincerlo a interpretare, con la mia regia, Servo di scena, dove impersonava un attore ormai al tramonto. Ma quando gli proposi di vedere il film che ne aveva fatto Peter Yates e dopo aver letto l’opera originale, ne fu entusiasta. Cominciarono le prove, e pure il mio calvario».
Addirittura. Perché?
«In generale, dirigere i grandi attori della sua epoca era piuttosto complesso. Lui, poi, era molto duro, non gli andava bene niente, non si accontentava di nulla e diceva subito no a qualunque mia pro
posta. Ma piano piano capivo che le sue continue negazioni erano dovute alla ricerca spasmodica della perfezione, un incentivo a fare sempre meglio; e aveva ragione. Grazie a quello spettacolo, vinse il Biglietto d’Oro come migliore attore italiano». Non era contento che suo figlio seguisse le sue orme?
«È un dubbio che mi porto dentro, non so se gli facesse realmente piacere. Forse era meno preoccupato perché avevo deciso di fare il regista, come attore sarebbe stato peggio. Credo che la mia carriera teatrale lo preoccupasse e contemporaneamente lo inorgoglisse: un modo di passarmi il testimone».
Veniva a vedere i suoi spettacoli?
«Pochi, perché era spesso in tournée. Una volta capitò che eravamo entrambi a Torino, in teatri diversi, e si presentò in platea da spettatore: era una delle mie prime regie, recitavano Monica Scattini, Arturo Brachetti e Roberto Citran... una cosa molto distante dal suo mondo». Applaudì?
«Sì ma poi, da soli, mi disse tutto quello che non andava bene. Per lui era inutile parlare di quello che andava bene... Che ne parlavamo a fare?».
Probabilmente perché, fra teatro, cinema e la televisione dei grandi sceneggiati, Turi Ferro è stato diretto dai più importanti registi.
«Strehler lo definiva “tutto teatro”, ma proprio mentre papà recitava con lui I giganti della montagna, accadde un episodio spiacevole. In quel periodo, non solo era impegnato al Lirico di Milano, ma girava a Borgomanero I racconti del maresciallo di Mario Soldati: papà faceva avanti e indietro, una sessantina di chilometri, tutti i pomeriggi per presentarsi puntuale in palcoscenico. Purtroppo, un giorno gli si rompe l’auto in autostrada e, dopo varie peripezie, riesce ad arrivare alle 21.30. Davanti all’ingresso del teatro, trova Paolo Grassi ad attenderlo, mentre il pubblico se ne stava andando: spettacolo sospeso, mancava l’attore che interpretava il mago Cotrone. Pur non avendo colpe, fu un forte trauma, che tuttavia riuscì a metabolizzare, essendo dotato di senso dell’umorismo... A questo proposito mi torna in mente un episodio divertente... Premetto che mio padre non si schierò mai politicamente, era un vecchio socialista e una volta gli capitò di fare un viaggio in aereo seduto accanto a Pajetta, di cui aveva stima. Cominciano a parlare e il leader comunista gli fa un sacco di complimenti. Papà ne era lusingato ma sorpreso, non immaginava che lo conoscesse così bene. E infatti... arriva la hostess con il libro di bordo e chiede a Pajetta di firmarlo ma lui, con gesto di ossequio, risponde: “Prima tocca al maestro Rosi” e porge il libro a mio padre. Lo aveva scambiato per Francesco Rosi». E la reazione di suo padre?
«Non fece una piega: firmò col nome di Rosi e la hostess, che lo aveva riconosciuto, accettò la firma falsa ridendo». Quello di Turi Ferro è stato un percorso di successi.
«All’Odéon di Parigi fu chiamato a interpretare Il berretto a sonagli, in occasione dei cinquant’anni dalla scomparsa di Pirandello: la platea era gremita dalle maggiori personalità internazionali e fu un trionfo assoluto. Al termine della rappresentazione era previsto un ricevimento all’Eliseo, dove tutti lo attendevano come ospite d’onore, ma lui era infuriato perché, a suo avviso, durante lo spettacolo, il responsabile delle luci aveva sbagliato tutto. Era talmente fuori di sé, che di lui, quella sera, si persero le tracce». Difficile gestirlo come attore, figuriamoci come marito...
«Turi e Ida somigliavano un po’ a Raimondo Vianello e Sandra Mondaini, ma si incastravano alla perfezione: se lui, per qualche motivo, si infuriava, lei lo calmava. Il loro matrimonio è durato 55 anni, soprattutto grazie alla pazienza di Ida, che stava sempre un passo indietro».
Mai una gelosia, nemmeno quando girò «Malizia», celebre film erotico accanto alla splendida Laura Antonelli?
«No. Mamma era gelosa di certi “innamoramenti artistici” di mio padre, quando sceglieva come compagne di scena altre attrici».
Il compagno di scena più stimato da Turi?
«In teatro il suo preferito era Salvo Randone, un mito di cui aveva un rigoroso rispetto, tanto che non volle mai recitare l’Enrico IV di Pirandello, perché diceva: “Se lo faccio meglio di Salvo, gli ho tolto qualcosa; se lo recito peggio, ho fatto una sciocchezza”. Con Marcello Mastroianni, un’amicizia profonda costellata di risate e di scherzi. Mentre giravano insieme un film di Lina Wertmüller in Sicilia, mio padre prese l’abitudine, durante le pause, di andare a raccogliere lumache nei dintorni del paese dove si trovava il set: era fissato, gli piaceva farsele cucinare, le raccoglieva in un paniere. Marcello, che conosceva l’abitudine, durante la scena madre in cui il personaggio interpretato da mio padre moriva, gli rovesciò addosso tutte le bestiole». Il personaggio da lui più amato?
«Nell’immaginario collettivo è Ciampa nel Berretto a sonagli, in realtà lui amava di più Liolà, gli ricordava la giovinezza». I film che non ha voluto fare?
«Ha rifiutato parecchie proposte, da
Amici mie ia Nuovo cinema Paradiso, perché prediligeva il teatro. Gli proposero anche un ruolo da mafioso nel Padrino
II... ma non gli piaceva l’immagine stereotipata della sua Sicilia e declinò l’invito. Lui amava la sua terra e ha interpretato spesso opere di Leonardo Sciascia e Pippo Fava proprio contro la mafia, rischiando la pelle: era un periodo di attentati, denunciare certi fatti era pericoloso». Il più grande dispiacere?
«Era il 5 gennaio 1984 e stava recitando
Pensaci Giacomino allo Stabile di Catania. Lo spettacolo viene interrotto dal direttore del teatro: proprio davanti allo Stabile avevano sparato a Pippo Fava, la nipote era in scena proprio con mio padre. Papà corse fuori e il giornalista scrittore morì tra le sue braccia».
E pensare che nel 2001 Roberto Benigni lo voleva nel suo «Pinocchio» nel ruolo di Geppetto.
«Stava già male, ma non malissimo. Roberto venne a casa per parlargli del progetto. Papà era felicissimo della proposta, era un personaggio diverso dai soliti. Ricordo il suo sguardo mentre, al termine della visita, strinse calorosamente la mano del regista... era come dire: non farò in tempo».