Corriere della Sera - La Lettura
Sogno per il mio teatro un’azione collettiva ambientata sul Tevere
Piersandra Di Matteo, da oltre un decennio collaboratrice di Romeo Castellucci, è la nuova direttrice artistica di Short Theatre, festival multidisciplinare romano e punto di riferimento non solo nazionale. Questo è il suo programma
Short Theatre, festival di arti performative e punto di riferimento della creazione artistica contemporanea che dal 2006 anima gli spazi di Teatro India di Roma e della Pelanda, ha una nuova direttrice artistica: Piersandra Di Matteo. Una nomina che arriva in un momento difficile per il teatro — si parla non senza incertezze di riapertura dal 27 marzo —, esito non di una call ma, precisa la neo direttrice, «frutto di riflessioni nate dentro l’équipe di lavoro guidata da Francesca Corona, che mi affiancherà in questo anno di passaggio».
Festival capace di entrare in contatto con le forme più innovative della scena, Short Theatre si è affermato, anche a livello internazionale, «come uno spazio “poroso” aperto alle trasformazioni e con una fisionomia precisa: una connessione molto stretta con la città di Roma, su cui fa perno, e la capacità di dialogare con le estetiche, le pratiche, le poetiche di artisti che lavorano anche fuori dall’Europa. Mi muoverò in continuità con questo tipo di tensione — sottolinea Di Matteo —, cercando di puntare in profondità lo sguardo su una scena meno conosciuta e marginalizzata: mi interessano il Medio Oriente, l’Africa, l’idea del Sud. Il tutto compatibilmente con la possibilità di mobilità che il Covid imporrà. Dovremo avere antenne alte e sensibili su cosa viene lasciato fuori dalla contrazione di tempo dettata dall’emergenza sanitaria».
Dramaturg, studiosa, stretta collaboratrice da oltre un decennio di Romeo Castellucci, Di Matteo è stata curatrice artistica a Bologna di Atlas of Transitions
Biennale, progetto europeo cofinanziato dal programma «Europa Creativa» in partnership con Emilia-Romagna Teatro Fondazione. Un progetto al confine tra arte e attivismo che ha coinvolto teatri, organizzazioni culturali e università di sette Paesi (Albania, Belgio, Polonia, Francia, Grecia e Svezia oltre all’Italia) per trovare spazi di incontro e attivare processi partecipativi tra cittadini europei e nuovi arrivati attraverso le arti performative. «Questa occasione è stata per me una grande palestra per ripensare le performing arts non solo in relazione al tema della migrazione, ma alla città intesa come spazio da rioccupare, riattraversare, con cui rinegoziare forme di prossimità con i cittadini, in una traiettoria elastica tra centro e periferia. Abbiamo lavorato soprattutto su progetti partecipativi, cercando di “scucire” forme collaudate in cui il migrante è rappresentato come un soggetto deficitario con un “debito” da pagare nel Paese di arrivo. L’idea di disseminare poetiche dell’incontro è stato senz’altro un tratto distintivo del progetto».
Sull’indirizzo delle scelte che intende maturare per Short Theatre 2021 (2-12 settembre), Di Matteo precisa: «Sarà un’edizione ponte, di passaggio, in dialogo con Francesca Corona, che ha avuto la cura del festival dalla sua partenza e poi, in maniera più intensa, negli anni recenti. Le misure anti-Covid e il contingentamento — ricorda — hanno imposto limitazioni e costretto a sospendere delle interlocuzioni con alcuni artisti internazionali. Dunque una parte del programma sarà la rimodulazione di spettacoli del 2020 alla luce di dialoghi e accordi con le compagnie. La mia prima edizione effettiva sarà nel 2022, ma linee drammaturgiche e consapevolezze curatoriali sono quelle nate dentro Atlas, che mi porto dietro. Una tensione al rapporto tra arti performative, teatro contemporaneo e città, interessata alla “capacità urbana”, per citare la sociologa Saskia Sassen». Il teatro come avamposto da cui promuovere una reinvenzione partecipata della collettività. «Dunque l’idea di un festival inclusivo: già in questo primo anno — prosegue Di Matteo — attiveremo una serie di progetti partecipativi con i minori stranieri non accompagnati e in collaborazione con associazioni che si occupano, ad esempio, di violenza contro le donne, cercando di creare dispositivi relazionali aperti, che siano occasioni non ancora immaginate di incontri possibili». Nomi? «Meglio non farne, il Covid impone ancora limitazioni forti. Ma due sono le questioni in primo piano: l’attenzione alla scena italiana, per sostenere il lavoro degli artisti troppo a lungo fermi, e il desiderio di essere in dialogo con la scena internazionale».
L’ultimo spettacolo visto prima del lockdown è stato, ricorda la neo direttrice, Necropolis di Arkadi Zaides. «Nel febbraio 2020 a Grenoble. Feci un lungo viaggio — l’ultimo! — prima della chiusura definitiva. Uno spettacolo di grande forza poi presentato in formato digitale all’interno di Atlas of Transitions a conclusione del progetto europeo. Nutro qualche perplessità sulla fruibilità digitale di progetti nati su relazioni corporee e percettive; nel caso di Necropolis il ripensamento attivato da Arkadi sul dispositivo filmico è estremamente efficace. Ripensare oggi che Necropolis è stato l’ultimo lavoro visto prima dello stop totale fa effetto, perché è un lavoro sui corpi, sui corpi assenti, sui corpi dei migranti morti cercando di raggiungere l’Europa. La potenza di questo lavoro di “riconsegna” dei nomi — questo archivio degli archivi dei corpi — è amplificata dalla “distanza sociale” che ci ha brutalmente imposto il tema della separazione tra i corpi».
Il tempo sospeso dell’emergenza sanitaria ha interrotto, racconta Di Matteo, «la vita in grandissimo movimento che facevo, soprattutto in anni recenti, sia per il lavoro di collaborazione con Romeo Castellucci, che per la mia attività di ricercatrice all’Università Iuav di Venezia. Eppure, l’immobilità forzata è stata un modo per dedicarmi completamente al lavoro di studio e di scrittura. Un desiderio che coltivavo da tempo. E che il lockdown — lo dico, beninteso, da privilegiata — mi ha dato la possibilità di accogliere».
L’incontro con Romeo Castellucci risale al 2005, «in occasione della Biennale da lui curata (Pompei. Il romanzo della cenere), a Venezia, dove ero stata invitata da Claudia Castellucci. Il nostro è un dialogo intenso che continua a crescere, aprendo sempre nuovi spazi di complicità. Gli devo tantissimo, è inevitabile che abbia formato anche un modo di pensare il teatro attraverso le pratiche, il farlo». Se oggi non ci fosse la pandemia e avesse carta bianca, un budget no limits, «più che un artista o uno spettacolo — riflette — mi piacerebbe creare un ambiente in cui possano convergere molti artisti, mondi, istanze estetiche. Un contesto che si apre a un insieme di processi, che lavora “tra” gli uni e gli altri. Mi piacerebbe che fosse nella città di Roma, che si innervasse nella sua colonna spinale mobile: un’azione collettiva nel Tevere. Utopia? Vedremo…».