Corriere della Sera - La Lettura
Ascolta, c’è funk e black music in questa Suite per violoncello
Carlo Boccadoro — pianista, compositore e musicologo — racconta le sorprendenti, meravigliose, analogie tra un gigante del Settecento, vissuto alla corte di sovrani, e un gigante del Novecento, vissuto in un piccolo centro alle porte di Minneapolis, Entrambi hanno preso un’epoca sonora e l’hanno proiettata nel futuro, entrambi hanno lavorato da stakanovisti e prodotto come un’industria
Con raffinata iconoclastia, che analizza le corrispondenze invece di soffermarsi sulle antinomie, Carlo Boccadoro, compositore e direttore d’orchestra, raffronta le biografie di due musicisti lontanissimi per epoche e stili scoprendo inedite convergenze. Nel saggio Bach e Prince. Vite parallele (Einaudi Stile libero) l’autore intreccia le storie dei protagonisti in un racconto che, pur nella diversità, mostra come possano affiorare connessioni a distanza di secoli e in generi così diversi tra loro: un approccio che si spinge oltre le classificazioni, la querelle tra antichi e moderni, per concentrarsi sulle assonanze caratteriali nei rapporti con il potere, nella prolificità creativa e nel legame profondo con il substrato di appartenenza.
«Nell’Italia delle opposte fazioni e delle tifoserie il presente volumetto vorrebbe distaccarsi da questa concezione tipicamente nostrana — scrive Boccadoro —. Quel che mi interessa è provare a individuare dei fili comuni che colleghino i due musicisti». Tra le molte corrispondenze riscontrate tra gli affini per caso, la capacità di «caricarsi sulle spalle il peso del proprio tempo per traghettarlo nel futuro».
Vissuti in periodi storici segnati da radicali cambiamenti, hanno saputo trovare risposte intelligenti alla domanda: «Come si può cercare di riassumere in un linguaggio sincretico le diverse voci che affollano il nostro paesaggio sonoro?». Poco importa se uno si muova alla corte di sovrani settecenteschi, l’altro nell’era di Mtv: «Mi piace credere che se questi due grandi artisti avessero avuto la possibilità di incontrarsi — immagina il narratore — si sarebbero piaciuti». Simili nell’operazione di sintesi culturale, ma non rivoluzionari al punto di produrre uno stravolgimento dirompente: «Sembrano l’acqua e l’olio. Provengono da due mondi agli antipodi, per questo è curioso scoprire i fili rossi che li legano. Bach non inventa, non è come Wagner: prende le forme italiane, francesi e le mischia ispirandosi anche ad altri, a Vivaldi ad esempio... all’epoca non c’era il copyright. Gli ingredienti erano già nell’aria, ma il modo di tirare le somme, la creazione del piatto finale è inconfondibile». Stessa chiave di lettura per Prince: «Se smontiamo i suoi brani vi troveremo dentro Earth, Wind & Fire, Stevie Wonder, Marvin Gaye, ma la sua unicità sta nella rielaborazione, nel metterli insieme... E alcuni riff di chitarra potrebbero essere di Jeff Buckley. Entrambi si trovano alla fine di un periodo storico e all’inizio di un altro. Bach fa come Noè sull’arca, Prince recupera il funk degli anni Settanta, ma anche la politonalità, il jazz, la musica classica... Grazie al loro talento hanno creato l’alchimia sonora del loro tempo».
Figure gigantesche, partorite da microcosmi di provincia ai quali rimarranno sempre legati. Bach esce di rado dalla sua città, Eisenach, che nel Cinquecento ospitò il fuggiasco Martin Lutero, eppure diventa un compositore universale. Prince nasce a Minneapolis, centro di 450 mila abitanti, di dimensioni medio-piccole rispetto alle megalopoli americane. A sudovest, nel piccolo comune di Chanhassen, fonderà i Paisley Park Studios: «Non mi considero una superstar — svelerà nell’85 in un’intervista — . Vivo
in un paesino, e ci vivrò per sempre. Posso passeggiare ed essere me stesso».
L’analisi comparativa porta Boccadoro, che «la Lettura» ha raggiunto al telefono, a individuare nella tendenza a circondarsi di una cerchia ristretta di fedelissimi, per «rendersi impermeabili alle influenze provenienti dall’esterno», un altro punto di contatto. L’autore di Purple
Rain tenderà sempre a esercitare un controllo assoluto sulla sua musica e ad avvalersi di pochi collaboratori leali per ridurre al minimo le ingerenze (non consentiva neppure alla casa discografica che finanziava i suoi dischi di ascoltare qualcosa prima che il master finale venisse consegnato). Tra i rari tecnici del suono con i quali ha collaborato, Peggy McCreary e Susan Rogers ricordano il suo slancio inesauribile e lo spirito di indipendenza ai limiti dell’autarchia: in studio era capace di lavorare isolato dal mondo anche per venti ore di fila senza mangiare e dormire. «Ugualmente reclusa» e limitata a un entourage ristretto di amici la vita lavorativa di Bach: «I familiari lo aiutavano nella copiatura delle opere e alcuni capolavori di cui s’è perduto l’originale (ad esempio le Sei Suites per violoncello solo) sono giunti fino a noi grazie a una copia realizzata dalla moglie Anna Magdalena, a sua volta cantante».
Meticolosi e maniacali nel supervisionare ogni singolo dettaglio: il parallelismo evidenzia rispondenze nella personalità e nella gestione quasi esclusiva del processo creativo. «Molte testimonianze del tempo di Bach narrano delle continue lamentele che rivolgeva a strumentisti e coristi che a parer suo non erano in grado di eseguire correttamente i suoi lavori — osserva il biografo-esegeta —, mentre nel caso di Prince questo scetticismo verso il prossimo è esemplificato nella decisione di suonare praticamente tutti gli strumenti da solo nei dischi, almeno per la prima parte della sua carriera».
E però, la forte spinta all’autonomia non può eludere il confronto con il potere, siano i sovrani o le major discografiche: «Al tempo di Bach gli artisti erano considerati schiavi, Prince si scrive slave sulla faccia...». Intersezioni si possono rintracciare anche nell’analogo virtuosismo: «Entrambi polistrumentisti e magnifici organizzatori di ensemble musicali in grado di stupire i contemporanei con le loro improvvisazioni». È ormai leggendario l’incontro tra un Prince appena diciottenne e i big della Warner Bros. Mo Ostin e Lenny Waronker: «Disse loro che non soltanto voleva produrre da solo il suo primo album, ma che intendeva suonare tutti gli strumenti». Malgrado le perplessità, gli venne concessa una prova: «Immediatamente fu in grado di registrare la parte di batteria senza errori, cui sovrappose subito quella di basso; passò quindi a incidere la chitarra e, per ultimo, le tastiere, prima di concentrarsi sulle voci e i cori. In poco tempo il pezzo era pronto». L’attaccamento ai propri contesti di origine è permeato da un forte spirito di condivisione: «Il senso di quello stare assieme, della partecipazione, passa attraverso il codice genetico-musi
cale delle rispettive comunità; si traduce in una serie di segnali che per gli ascoltatori sono automatici, un codice immediatamente comprensibile da tutti al di là delle specifiche conoscenze personali: che si tratti dei corali luterani (Bach) o dei ritmi black-funk (Prince) non fa alcuna differenza perché svolgono entrambi la stessa funzione».
Se non sorprende che ad accomunare i gemelli diversi siano stakanovismo ed etica del lavoro associati alla produzione quasi ipertrofica, la congiunzione coreutica è meno intuitiva. «È nella produzione per strumento solista (fiorita principalmente durante gli anni della sua permanenza a Köthen) — annota Boccadoro — che Bach ha concentrato la sua attenzione su quella che era la forma di intrattenimento popolare per eccellenza: la danza». Più immediato il nesso con Prince: «Fin dal primo apparire la sua musica ha puntato dritto verso le piste delle discoteche, era chiaro che la dimensione del ballo fosse uno dei suoi obiettivi primari». All’esaltazione della vita attraverso il ballo fa da contrappunto il memento
mori, la consapevolezza della fugacità dell’esistenza umana: «Il senso della morte attraversa tutta l’opera di Prince, anche in brani i cui suoni estroversi sembrano contraddire la cupezza del messaggio racchiuso nelle canzoni: una simile visione dell’esistenza si ritrova in Bach e compare in gran parte del suo lavoro, dove è spesso presente un netto contrasto tra la dolcezza della musica e gli avvenimenti tragici descritti dalle parole (specie nelle Cantate e nelle Passioni)».
Grande seguace della black music, l’autore racconta di essersi appassionato al «folletto di Minneapolis» per la sua superba capacità di sintesi: «In Stevie Wonder non si trovano tutti questi cambi stilistici, Prince prova sempre a cambiare anche sbagliando e facendo dischi brutti». Immergersi nella sua produzione oceanica si è rivelato uno studio matto e disperatissimo: «Non è stato semplice recuperare tutti i suoi dischi, ne ho trovati alcuni sul mercato dell’usato, altri li ho acquistati negli Usa. Prince è anche stato tra i pionieri nella vendita di musica online sotto forma di file audio e si ipotizza che sia stato proprio lui a pubblicare su YouTube molti pezzi inediti registrati in sala di incisione. Sapevo che su Bach c’è una bibliografia immensa, ma ignoravo la mole di ricerche, tesi universitarie, convegni su Prince, studiato come fosse un classico». Convinto che la musica debba essere analizzata per quello che è, «caso per caso», non ama le distinzioni troppo rigide: «Quando ho iniziato a lavorare al progetto del libro, mi hanno preso per matto. La mia idea è che la musica pop abbia la sua nobiltà indipendentemente dalla musica classica. Ogni tanto gli autori di musica leggera suonano con le orchestre, ma spesso rovinano il proprio lavoro perché non hanno bisogno di essere magnificati».