Corriere della Sera - La Lettura
La Pompei d’Oriente
Accadde 4.200 anni fa. Il clima cominciò a cambiare. I monsoni seguivano percorsi del tutto nuovi e nel volgere di pochi decenni le verdi alture dell’Iran sudorientale diventarono montagne di sabbia. Dove prima sorgeva una città florida, adesso si estendeva un ambiente arido e inospitale. Gli ultimi anni furono crudeli, la terra non dava più cibo, l’esame delle tombe ha rivelato le spoglie di bambini malnutriti. Era la fine di una civiltà.
I resti di quell’antico centro abitato sono emersi di nuovo, grazie agli scavi effettuati da una missione archeologica italo-iraniana. Negli ultimi quattro anni ci hanno lavorato i ricercatori dell’Università del Salento guidati da Enrico Ascalone e da Seyyed Mansur Seyyed Sajjadi. Sono tornati alla luce gli edifici di Shahr-i Sokhta, che vuol dire Città bruciata, conosciuta come la Pompei d’Oriente. Mentre a Pompei ogni cosa è rimasta cristallizzata nella lava del Vesuvio, a Shahr-i Sokhta è stata la sabbia del deserto a compiere il lavoro di conservazione. Una sabbia ricca di sale che ha assorbito anche la minima goccia di umidità lasciando inalterati i manufatti, le sepolture e i tesori. «Tanti splendidi oggetti — racconta Ascalone —. Pietre preziose come la corniola, con incastonate perle lucenti».
La storia di Shahr-i Sokhta comincia 5.500 anni fa. Come l’Egitto deve tutto al Nilo e le città dei Sumeri dipendono dall’acqua di Tigri ed Eufrate, anche la Pompei d’Oriente è figlia di una fiume, l’Hirmand che scende dalla catena dell’Hindu Kush, percorre l’intero Afghanistan e inonda gli altipiani iraniani. Siamo a 500 metri di altitudine. Dobbiamo immaginare un ambiente idilliaco. Immensi boschi popolati da una ricca fauna, come dimostra il ritrovamento delle ossa di cervi, gazzelle e caprioli. L’acqua del fiume è abbondante, invade le pianure rendendo il terreno fertile, ideale per un’economia agricola. Il posto è invitante. Nel periodo iniziale il sito è abitato in media da 1.550 individui, ma nell’arco dei suoi 1.300 anni di vita la città si espande e riesce ad accogliere una popolazione di circa 10 mila persone. È organizzata bene. L’area residenziale è separata dalla zona con i laboratori artigianali, c’è uno spazio pubblico con templi e monumenti e, più discosta, la necropoli, da cui sono emerse le sepolture di 97 mila individui. Esaminando le tombe, viene fuori che gli abitanti usavano nove tipi di ritualità nel seppellire i morti. Le differenze consistono nei corredi funerari, nel tipo di tomba a semplice fossa, a fossa bipartita, a catacomba, a forma rettangolare o circolare, con animali (per esempio, un macaco) sepolti accanto agli umani.
Tutto questo fa immaginare una popolazione eterogenea composta da gruppi con culture diverse. A differenza della Mesopotamia, dove fioriva una società organizzata in modo verticale con un capo e una classe dirigente che esercitava un controllo severo, qui non c’era un signore dominante, non esisteva un’organizzazione gerarchica, i clan tribali convivevano in concordia, forse in virtù di una rigida divisione dei compiti, un sistema sociale per il quale è stato coniato il termine «eterarchia». Gli oggetti recuperati danno un’idea della laboriosità degli artigiani. Stuoie e tappeti colorati di blu, creazioni in alabastro e turchese. Ciotole, vasellame decorato, ampolle, materiale le cui caratteristiche cambiano negli anni e aiutano a scandire la storia della città in quattro cicli, l’ultimo dominato da una ceramica di colore rosso.
Il ritrovamento più sorprendente riguarda centinaia di piccole formelle di argilla di 2 centimetri per 4 conservate nelle abitazioni. Alcune recano incise linee che indicano le unità e su altre sono impressi puntini per conteggiare i multipli. Sono annotazioni contabili, registrano le entrate e le uscite e ci parlano di un’attenta economia familiare. Ma segnalano anche un grosso problema: le difficoltà di comunicazione. Quando arrivavano mercanti stranieri non sapevano come intendersi con gli abitanti locali. Allora usavano un sistema di segni, con un bastone tracciavano linee e punti per terra. Fu uno dei primi tentativi di dare vita a un metodo di scrittura. E in effetti la scrittura nacque in Mesopotamia per esigenze commerciali.
I mercanti percorrevano chilometri con le carovane e Shahr-i Sokhta aveva la fortuna di trovarsi proprio lì nel mezzo. La città divenne un punto di raccolta e trasformazione dei materiali. Nei laboratori gli artigiani ricavavano gioielli da metalli preziosi, modellavano ceramiche, cesellavano i lapislazzuli delle mitiche montagne blu afghane. I prodotti diretti verso la ricca Mesopotamia viaggiavano sul dorso dei cammelli lungo un itinerario che in seguito diventerà la Via reale di Persia fatta costruire dal re Dario.
Alcuni studiosi sono convinti di poter identificare la Pompei d’Oriente con la leggendaria Aratta. I Sumeri erano affascinati dal mito di questa città fantastica, collocata a Oriente. Una città colma di ricchezze, piena d’oro, argento e lapislazzuli. Aratta la sublime. Lontanissima, raggiungibile dopo avere valicato «sette montagne». Nei testi sumerici si accenna più volte alla magnifica Aratta, esaltata soprattutto nel poema sumerico Enmerkar e il signore di Aratta, dove viene descritta una città di grande bellezza. Perfino la dea Inanna l’ha scelta come sua sede, il tempio a lei dedicato risplende tutto ricoperto di lapislazzuli. Ad Aratta allude anche la dea Ishtar nel poema dedicato alle imprese dell’eroe Gilgamesh.
Ora, gli archeologi hanno davvero trovato a Shahr-i Sokhta la misteriosa Aratta? C’è chi ne è convinto e chi è poco incline a crederlo senza una prova decisiva. La ricerca è appena cominciata.