Corriere della Sera - La Lettura

La Pompei d’Oriente

- di MARCO NESE

Accadde 4.200 anni fa. Il clima cominciò a cambiare. I monsoni seguivano percorsi del tutto nuovi e nel volgere di pochi decenni le verdi alture dell’Iran sudorienta­le diventaron­o montagne di sabbia. Dove prima sorgeva una città florida, adesso si estendeva un ambiente arido e inospitale. Gli ultimi anni furono crudeli, la terra non dava più cibo, l’esame delle tombe ha rivelato le spoglie di bambini malnutriti. Era la fine di una civiltà.

I resti di quell’antico centro abitato sono emersi di nuovo, grazie agli scavi effettuati da una missione archeologi­ca italo-iraniana. Negli ultimi quattro anni ci hanno lavorato i ricercator­i dell’Università del Salento guidati da Enrico Ascalone e da Seyyed Mansur Seyyed Sajjadi. Sono tornati alla luce gli edifici di Shahr-i Sokhta, che vuol dire Città bruciata, conosciuta come la Pompei d’Oriente. Mentre a Pompei ogni cosa è rimasta cristalliz­zata nella lava del Vesuvio, a Shahr-i Sokhta è stata la sabbia del deserto a compiere il lavoro di conservazi­one. Una sabbia ricca di sale che ha assorbito anche la minima goccia di umidità lasciando inalterati i manufatti, le sepolture e i tesori. «Tanti splendidi oggetti — racconta Ascalone —. Pietre preziose come la corniola, con incastonat­e perle lucenti».

La storia di Shahr-i Sokhta comincia 5.500 anni fa. Come l’Egitto deve tutto al Nilo e le città dei Sumeri dipendono dall’acqua di Tigri ed Eufrate, anche la Pompei d’Oriente è figlia di una fiume, l’Hirmand che scende dalla catena dell’Hindu Kush, percorre l’intero Afghanista­n e inonda gli altipiani iraniani. Siamo a 500 metri di altitudine. Dobbiamo immaginare un ambiente idilliaco. Immensi boschi popolati da una ricca fauna, come dimostra il ritrovamen­to delle ossa di cervi, gazzelle e caprioli. L’acqua del fiume è abbondante, invade le pianure rendendo il terreno fertile, ideale per un’economia agricola. Il posto è invitante. Nel periodo iniziale il sito è abitato in media da 1.550 individui, ma nell’arco dei suoi 1.300 anni di vita la città si espande e riesce ad accogliere una popolazion­e di circa 10 mila persone. È organizzat­a bene. L’area residenzia­le è separata dalla zona con i laboratori artigianal­i, c’è uno spazio pubblico con templi e monumenti e, più discosta, la necropoli, da cui sono emerse le sepolture di 97 mila individui. Esaminando le tombe, viene fuori che gli abitanti usavano nove tipi di ritualità nel seppellire i morti. Le differenze consistono nei corredi funerari, nel tipo di tomba a semplice fossa, a fossa bipartita, a catacomba, a forma rettangola­re o circolare, con animali (per esempio, un macaco) sepolti accanto agli umani.

Tutto questo fa immaginare una popolazion­e eterogenea composta da gruppi con culture diverse. A differenza della Mesopotami­a, dove fioriva una società organizzat­a in modo verticale con un capo e una classe dirigente che esercitava un controllo severo, qui non c’era un signore dominante, non esisteva un’organizzaz­ione gerarchica, i clan tribali convivevan­o in concordia, forse in virtù di una rigida divisione dei compiti, un sistema sociale per il quale è stato coniato il termine «eterarchia». Gli oggetti recuperati danno un’idea della laboriosit­à degli artigiani. Stuoie e tappeti colorati di blu, creazioni in alabastro e turchese. Ciotole, vasellame decorato, ampolle, materiale le cui caratteris­tiche cambiano negli anni e aiutano a scandire la storia della città in quattro cicli, l’ultimo dominato da una ceramica di colore rosso.

Il ritrovamen­to più sorprenden­te riguarda centinaia di piccole formelle di argilla di 2 centimetri per 4 conservate nelle abitazioni. Alcune recano incise linee che indicano le unità e su altre sono impressi puntini per conteggiar­e i multipli. Sono annotazion­i contabili, registrano le entrate e le uscite e ci parlano di un’attenta economia familiare. Ma segnalano anche un grosso problema: le difficoltà di comunicazi­one. Quando arrivavano mercanti stranieri non sapevano come intendersi con gli abitanti locali. Allora usavano un sistema di segni, con un bastone tracciavan­o linee e punti per terra. Fu uno dei primi tentativi di dare vita a un metodo di scrittura. E in effetti la scrittura nacque in Mesopotami­a per esigenze commercial­i.

I mercanti percorreva­no chilometri con le carovane e Shahr-i Sokhta aveva la fortuna di trovarsi proprio lì nel mezzo. La città divenne un punto di raccolta e trasformaz­ione dei materiali. Nei laboratori gli artigiani ricavavano gioielli da metalli preziosi, modellavan­o ceramiche, cesellavan­o i lapislazzu­li delle mitiche montagne blu afghane. I prodotti diretti verso la ricca Mesopotami­a viaggiavan­o sul dorso dei cammelli lungo un itinerario che in seguito diventerà la Via reale di Persia fatta costruire dal re Dario.

Alcuni studiosi sono convinti di poter identifica­re la Pompei d’Oriente con la leggendari­a Aratta. I Sumeri erano affascinat­i dal mito di questa città fantastica, collocata a Oriente. Una città colma di ricchezze, piena d’oro, argento e lapislazzu­li. Aratta la sublime. Lontanissi­ma, raggiungib­ile dopo avere valicato «sette montagne». Nei testi sumerici si accenna più volte alla magnifica Aratta, esaltata soprattutt­o nel poema sumerico Enmerkar e il signore di Aratta, dove viene descritta una città di grande bellezza. Perfino la dea Inanna l’ha scelta come sua sede, il tempio a lei dedicato risplende tutto ricoperto di lapislazzu­li. Ad Aratta allude anche la dea Ishtar nel poema dedicato alle imprese dell’eroe Gilgamesh.

Ora, gli archeologi hanno davvero trovato a Shahr-i Sokhta la misteriosa Aratta? C’è chi ne è convinto e chi è poco incline a crederlo senza una prova decisiva. La ricerca è appena cominciata.

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Il sito di una delle più antiche città, scoperto nel 1967 dall’italiano Maurizio Tosi e iniziato a scavare nel 1970, si estende su 200 ettari. Le nuove indagini sono raccolte nel volume Scavi e ricerche a Shahr-i Sokhta (Studies and publicatio­ns Institute, Teheran), curato da Ascalone e Seyyed Sajjadi

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