Corriere della Sera - La Lettura
Io vi canto tutto: Zecchino d’Oro e dolore (il mio)
con la voce spazia fra i generi. Un nuovo disco intimo e poi uno sui brani per bambini
Cristina Zavalloni (1973; nella foto di Barbara Rigon) incarna con invidiabile leggerezza la versatilità dello strumento primordiale per eccellenza, la voce. Negli anni ha dimostrato di sapersi muovere a proprio agio nei meandri del jazz contemporaneo, fra il rigore dei madrigali di Claudio Monteverdi, le sperimentazioni di Cathy Berberian, la lascivia solare della musica latina, con una presenza scenica che non passa inosservata. Il talento e lo studio sostenuti da rara determinazione ne hanno fatto una musicista completa (canta, compone, arrangia, e tiene sullo sfondo l’amore per la danza, che ha praticato e che le ha lasciato addosso un portamento antico). Ha da poco pubblicato un disco (For the living, Encore Music), che ha descritto a «la Lettura» come la «chiusura del cerchio», ne sta per realizzare un altro sulle canzoni dello Zecchino d’Oro con Paolo Fresu ed è appena stata insignita del titolo di Cavaliere della Repubblica, riconoscimento che «ha un valore simbolico forte in un momento così. Poi dato a me, che faccio questa musica...». Provi a definire la sua musica per cominciare.
«È musica fuori dal grande circuito commerciale».
Il nuovo disco, registrato a sezioni separate fra Arezzo e la Norvegia, è prodotto da lei con Jan Bang e vi suonano musicisti jazz e classici. «La natura umana non è fatta per comunicare a distanza ma la pandemia ci ha messo nella condizione di
non poterci incontrare tutti durante la registrazione. Jan però mi ha dato coraggio e infuso fiducia». Non vorrà dire che le manca il coraggio?
«Io sono molto coraggiosa ma devo far fronte a paure più grandi di me. È questo mix che mi rende spavalda». Ma quali sono le sue paure?
«Be’ la prima, quella ancestrale, è di deludere». Deludere chi?
«Uno psicologo alle prime armi direbbe mio padre. È per ottenere il suo amore che ho infatti intrapreso questa avventura nella musica. Naturalmente crescendo ho capito che questa della musica era la mia vocazione, la mia chiamata, però il problema è rimasto. Se non è più papà, saranno il pubblico, il produttore, le mie aspettative da perfezionista».
Ansie per questo disco?
«Una. La richiesta iniziale di Jan: io desidero fare con te un disco che metta in luce solo una delle tue corde espressive. Quella intima». E come si è tradotto il tutto?
«In un’agogica dal mezzo piano al pianissimo, quella più raccolta, più meditativa, più liquida. Jan ha usato spesso l’aggettivo “liquido”». È andato però tutto più che bene, ci sembra.