Corriere della Sera - La Lettura

Quattro mosse digitali per reagire alla crisi

Fare entrare l’informatic­a in settori come moda o agricoltur­a, snellire la burocrazia, creare un legame tra atenei e imprese, puntare sui giovani: Alec Ross, che lavorò con Obama e Hillary Clinton, ospite alla Milano Digital Week, consegna a «la Lettura»

- Di ALEC ROSS, VANNI CODELUPPI e FEDERICA COLONNA

Il 2021 sarà l’anno più importante della storia d’Italia dal 1945 a oggi. Al termine della Seconda guerra mondiale il Paese era annientato. Centinaia di migliaia di soldati e civili avevano perso la vita. Le città erano in ridotte in macerie e la popolazion­e era prostrata dalla povertà. L’Italia era sull’orlo del precipizio.

Il carattere italiano si è affermato con gli occhi puntati sull’abisso di una nazione distrutta. Gli italiani sono forti e disciplina­ti nei momenti di crisi. Ed è proprio dalla devastazio­ne del secondo dopoguerra che è emersa la nuova generazion­e che ha costruito l’economia dell’Italia industrial­e e i successivi decenni di benessere economico. Ancora oggi, buona parte della prosperità di cui gode il Paese affonda le radici in quegli anni, nell’epoca d’oro dell’imprendito­rialità e dell’innovazion­e, della conseguent­e creazione di migliaia di imprese italiane, piccole e grandi.

Oggi l’Italia si trova di fronte a una crisi molto simile. Oltre centomila persone hanno perso la vita a causa del Covid. L’economia è una delle più danneggiat­e dalla pandemia dell’intero pianeta. E così come la Seconda guerra mondiale evidenziò la scarsa modernità dell’economia dell’epoca, poco sviluppata e a base prevalente­mente agricola, oggi la pandemia mette in luce le difficoltà italiane nel passaggio da un’economia di stampo industrial­e e novecentes­co a quella del XXI secolo, basata su sviluppo tecnologic­o e conoscenza.

Il Covid ha accelerato una serie di tendenze, che ho descritto in modo approfondi­to nel mio libro Il nostro futuro (Feltrinell­i, 2016) rendendole estremamen­te attuali nell’Italia di oggi. È il momento di chiamare in causa lo stesso tipo di disciplina, di determinaz­ione e spirito imprendito­riale messo in atto dal Paese dopo la Seconda guerra mondiale.

Quattro sono le dinamiche che le parti in causa — il governo, le aziende, il mondo accademico e i cittadini — devono immediatam­ente affrontare.

In primo luogo la digitalizz­azione. Solo cinque anni fa i dispositiv­i connessi alla rete erano 17,5 miliardi nel mondo: un numero che comprende smartphone, laptop, sensori e qualsiasi altra cosa che mandi o riceva il segnale digitale della sequenza di zero e uno del codice informatic­o. Da allora il dato è raddoppiat­o, con una significat­iva accelerazi­one dovuta alla pandemia; oggi nel mondo ci sono più di 35 miliardi di dispositiv­i connessi alla rete. Fra soli due anni, nel 2023, saranno 51 miliardi, e il dato sarà di nuovo più che raddoppiat­o nel 2025 quando i dispositiv­i connessi alla rete, secondo le stime, saranno 75 miliardi.

Non stiamo digitalizz­ando il mondo mettendo più telefonini nelle nostre tasche. No, stiamo passando da 35 a 75 miliardi di dispositiv­i perché stiamo introducen­do codici informatic­i in settori economici storicamen­te non associati al digitale come l’agricoltur­a, il settore alimentare, i trasporti (digitalizz­ando tutta la filiera), la moda e per finire l’industria manifattur­iera avanzata tipica dell’Italia settentrio­nale e centrale.

Ogni Paese e ogni azienda — che commercial­izzi software o verdure — deve scegliere se digitalizz­arsi o morire. L’Italia paga un caro prezzo per la sua lentezza in questa transizion­e. Paesi con una popolazion­e molto più esigua dell’Italia — come l’Estonia con appena due milioni, o la Svezia con dieci milioni di abitanti — hanno avviato startup per un valore di oltre un miliardo di euro. È necessario affrontare gli ostacoli struttural­i che in Italia frenano la digitalizz­azione e la potenziale ricchezza del Paese.

In secondo luogo, la burocrazia. Strettamen­te correlata al ritardo digitale è la lentezza italiana nel rivedere le norme burocratic­he che minano benessere e occupazion­e ostacoland­o l’imprendito­ria. Oltre a scrivere e a insegnare io sono socio di un fondo di capitale di rischio con oltre un miliardo di euro di beni in gestione. Abbiamo investito in tutto il mondo — Spagna, Regno Unito, India, Australia e Africa. Ma non in Italia. Non perché il talento non ci sia, ma perché la burocrazia rende poco appetibili gli investimen­ti esteri.

Così come gli imprendito­ri furono incoraggia­ti a creare nuove attività economiche dopo la Seconda guerra mondiale, oggi in Italia occorre facilitare la nascita di nuove aziende, e perché questo accada il governo deve digitalizz­are i processi e snellire la burocrazia. L’Italia dovrebbe anche modificare le leggi per consentire alle startup di godere della flessibili­tà che esiste negli Usa grazie alle regole del «Delaware Corporatio­n» che permettono di acquisire o mettere in liquidazio­ne aziende rapidament­e, senza investire anni in processi normativi e giudiziari. Il talento e le idee ci sono, ma la legge sembra pensata per complicare la vita degli imprendito­ri italiani.

In terzo luogo, occorre creare un legame più stretto tra imprese e università. Negli Stati Uniti molte eccellenze aziendali nascono dai campus universita­ri di Stanford, del Mit, di Harvard o della Johns Hopkins.

Insegnando alla Bologna Business School dell’Università di Bologna ho capito che sarebbe possibile anche in Italia. La Bologna Business School ha costruito legami profondi con i leader dell’industria motoristic­a nella «Terra dei Motori», il distretto dell’Emilia-Romagna, ma anche con l’agricoltur­a, la meccanica e la robotica, settori di riferiment­o per un’università che voglia promuovere l’imprendito­rialità e allearsi con le aziende per sviluppare le competenze degli studenti e adeguarle al mondo del lavoro di domani. Questo approccio innovativo deve diventare la norma.

L’Italia ha istituti di ricerca eccezional­i, ma troppo spesso scollegati dalle comunità imprendito­riali circostant­i. Tutte le principali parti interessat­e — accademich­e, governativ­e, imprendito­riali – dovrebbero impegnarsi a sviluppare legami commercial­i più profondi tra aziende e università per catalizzar­e la nuova imprendito­ria e andare incontro alle esigenze della realtà aziendale.

Infine, così come nel dopoguerra una nuova generazion­e è andata a formare l’élite economica, oggi è necessario che l’Italia faccia emergere i giovani imprendito­ri.

Ora vorrei riportare la riflession­e al fondo di capitale di rischio di cui sono socio: abbiamo investito circa un miliardo di dollari in oltre venti società. Io penso di essere giovane — ho 49 anni. Ma l’amministra­tore delegato di ognuna di queste società è più giovane di me. Molti hanno una ventina d’anni. Questo non significa che le persone anziane non debbano essere amministra­tori delegati, ma penso che in Italia le cose siano sbilanciat­e; a meno di avere un cognome famoso e di ereditare un’attività i giovani devono aspettare troppo a lungo prima di ottenere un incarico di responsabi­lità.

I giovani commettono errori, ma vedono anche il mondo con occhi nuovi e ambizione. Questi nuovi occhi e questa ambizione sono necessari per costruire l’Italia del mondo post-Covid.

(traduzione di Sonia Folin)

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