Corriere della Sera - La Lettura
La cellula intelligente
La vita nella sua interezza è una rete d’informazioni, dice Paul Nurse, premio Nobel per la Medicina, e ogni particella vivente le usa per «prendere decisioni», spinta da un imperativo bisogno di evolvere, sia pure in modo ridondante e disordinato
Paul Nurse sa che cosa significa prendersi una soddisfazione. Figlio della classe operaia della periferia londinese, venne bocciato sei volte ai test di ammissione di altrettante università, perché non parlava bene il francese. Nel 2002, 35 anni dopo, gli fu conferita la Legion d’Onore e pronunciò il discorso di accettazione in un forbito francese. L’anno prima le sue scoperte sui geni che controllano la divisione e il ciclo cellulare lo avevano portato al premio Nobel per la Medicina. Dietro l’angolo, però, il destino aveva in serbo per lui, genetista di fama mondiale, uno scherzo beffardo. Mentre preparava i documenti per ottenere la green card, il permesso di residenza permanente negli Stati Uniti, scoprì che i suoi veri genitori non erano l’operaio e la donna delle pulizie che lo avevano cresciuto. Venne a sapere che la madre biologica era colei che aveva sempre creduto fosse sua sorella, di 17 anni più vecchia. La nonna, per proteggere la figlia dal biasimo sociale per aver avuto un figlio illegittimo in così giovane età, aveva finto per tutta la vita di essere la madre.
Nurse racconta questa storia di figlio di padre sconosciuto con un sorriso largo e sottile che lo fa assomigliare un po’ a Robin Williams. Ora ha pubblicato un libro ambizioso, che spiega quanto può essere intelligente una cellula e riprende il titolo del capolavoro del 1944 di Erwin Schrödinger, Che cos’è la vita. Esce da Mondadori il 23 marzo. Gli abbiamo chiesto di raccontarcelo. Partiamo dal lievito, l’attore principale del libro: è
il suo organismo preferito dopo le farfalle e ha accompagnato la sua vita da quando lavorava in una fabbrica di birra fino al Nobel. In ogni singola cellula di lievito ci sono 40 milioni di proteine: un tumulto di attività chimiche che si svolgono con enorme velocità e precisione. Che cosa abbiamo in comune noi con questi umili, ma sorprendenti, funghi unicellulari?
«I lieviti sono organismi semplici, piccoli, ma condividono molte caratteristiche con noi che siamo più complicati. Ci facciamo il pane, la birra, il vino, ma la loro vera utilità per la scienza è un’altra. Con il lievito si fa ottima genetica. Quando iniziai i miei esperimenti, più di trent’anni fa, non era affatto scontato che un processo complesso come la riproduzione della cellula fosse simile in un microbo e in un essere umano. Stiamo parlando di organismi che hanno avuto un antenato comune più di un miliardo di anni fa. È straordinario. Quando ottenemmo i primi risultati, tutti dissero che era una pazzia, che c’era qualche errore».
Succede spesso nella scienza. Ma perché non vi credevano?
«L’esperimento era veramente ardito. Identificammo un gene, chiamato cdc2, che controllava la divisione cellulare nel lievito. Per quanto apparisse improbabile, ipotizzammo che una versione omologa del gene fosse presente anche in Homo sapiens, con la stessa funzione, conservata dai primordi dell’evoluzione. Allora prendemmo alcune popolazioni di lievito che in seguito a una mutazione non avevano quel gene, e quindi non riuscivano a dividersi, e le spruzzammo con migliaia di pezzetti di Dna umano, ciascuno corrispondente a un gene. La speranza era che un gene umano entrasse nelle cellule del lievito e riattivasse la duplicazione. In tal caso avremmo scoperto la versione umana di cdc2. Ma cospargere il lievito con una biblioteca di geni umani non era proprio una pratica ortodossa». Sappiamo com’è andata a finire...
«Io stesso ero scettico quando tornavo a casa: non può funzionare, mi dicevo. Però volevo lasciare aperta una possibilità. E funzionò! Su una piastra di Petri per la crescita di colture cellulari, che stavo per buttare via, i lieviti ricominciarono a riprodursi. Un gene umano era in grado di controllare il ciclo cellulare del lievito».
Una bellissima dimostrazione della parentela universale di tutti i viventi, dell’albero della vita di Darwin. Alla fine del libro lei condensa la sua definizione di vita in tre principi: abilità di evolvere; essere entità fisiche delimitate, ma comunicanti; essere macchine fisiche, chimiche e informazionali. «Spero che un evoluzionista come lei sia contento di vedere l’evoluzione come primo principio della vita...».
Certamente! In biologia non possiamo uscire dalla dimensione del tempo, come vorrebbero alcuni fisici.
«Esatto, non c’è vita senza la freccia del tempo. E poi in fisica si tende a pensare che un modello sia incompatibile con un altro, mentre in biologia le conoscenze si integrano e si accumulano». Dei suoi tre principi, l’ultimo mi pare il più ostico.
In che senso una cellula è una macchina computazionale?
«Penso che, per capire l’unità della vita, la cellula vada vista come una macchina fisica e chimica, certo, ma anche come un sistema informazionale con una logica. Sappiamo che il Dna è un grande magazzino di informazione a lungo termine, ma anche la struttura della cellula lo è. La forma delle proteine è informazione. Le molecole si toccano, si combinano, i segnali corrono. Quindi la cellula è un sistema che si autoregola, elabora input e
output, usa le informazioni per prendere “decisioni”, se posso usare un termine antropomorfico. È come un software con un hardware, ma umido, un wetware. La vita nella sua interezza è una rete di informazioni».
Lei mette al centro della vita il concetto di teleonomia, nel senso che gli organismi sono sistemi con uno scopo, sopravvivere e riprodursi. In biologia però questa idea talvolta sconfina nel finalismo.
«Lo so, la uso apposta per provocare i miei colleghi, che subito storcono il naso quando sentono parlare di
scopo. I termini informazione e scopo non hanno lo stesso significato se pensiamo agli esseri umani e alle cellule. Quello che voglio enfatizzare con il termine scopo è che gli organismi viventi agiscono come un tutto, un sistema integrato. Così facendo, producono comportamenti finalizzati, come se avessero un bisogno imperativo di crescere, riprodursi, mantenere l’equilibrio interno, evolvere». Lei cita Immanuel Kant a favore di questa tesi.
«Sì, me lo hanno fatto notare alcuni colleghi filosofi della biologia. Fu Kant, nella Critica del giudizio, a dare la definizione di essere vivente come sistema complesso, auto-organizzato, finalizzato a uno scopo».
Nel libro ho trovato un’efficace citazione del suo collega Sydney Brenner: la matematica è l’arte del perfetto; la fisica è l’arte dell’ottimale; la biologia, a causa dell’evoluzione, è l’arte del soddisfacente. Funziona, produce strutture stupende, ma ciò che vive non è mai perfetto. Perché?
«Soprattutto i biologi molecolari hanno la tentazione di descrivere la cellula come un congegno perfetto. Non lo è. La vita è tanto meravigliosa quanto inefficiente, ridondante, piena di accidenti. I fisici cercano semplicità e perfezione, ma l’evoluzione procede per incrementi e aggiustamenti. Non sopravvive il più adatto in assoluto, ma il più adatto in certe circostanze».
Lei scrive che i biologi evoluzionisti dovrebbero collaborare di più nella ricerca sul cancro, perché i tumori sono sistemi evolutivi. In che senso?
«Si pensa che l’evoluzione produca solo strutture belle e sane, ma anche le malattie fanno parte della logica della vita. Il cancro è una malattia genetica che colpisce le cellule e le fa proliferare in modo incontrollato. Le cellule smettono di obbedire alle regolazioni dell’organismo e iniziano a fare una cosa sola: riprodursi egoisticamente. Il tumore muta, si diversifica, cambia, è soggetto a selezione, quindi è un sistema evolutivo. L’oncologia sta abbracciando i principi dell’evoluzione». Nel libro lei sostiene che dovremmo usare molto di