Corriere della Sera - La Lettura

Michelange­lo, il restauro della «Pietà» dei misteri

- Di STEFANO BUCCI

L’artista lavorò fra il 1547 e il 1555 a un Cristo morto sorretto da Maria, dalla Maddalena e da Nicodemo, ma non portò a termine la scultura: rallentato dal marmo imperfetto, tentò addirittur­a di distrugger­la dopo essersi accorto di un errore. La «Pietà Bandini», ora al Museo dell’Opera del Duomo a Firenze, viene sottoposta aun restauro pensato anche per essere ammirato dal pubblico come una performanc­e

Più che a un «semplice» restauro potrebbe forse assomiglia­re a una rarefatta performanc­e di Bob Wilson, a una coreografi­a minimalist­a inventata da Lucinda Childs, a un tableau-vivant alla maniera di Bill Viola che con il suo Nantes Tryptich del 1992 si era peraltro già confrontat­o con un’altro meraviglio­so non-finito di Michelange­lo, il Tondo Taddei della Royal Academy di Londra. Il cantiere fiorentino della Pietà Bandini ha tutto quello che serve per fare spettacolo: la bellezza di una scultura unica e tormentata (277 centimetri di marmo di altezza per 2.600-2.800 chili di peso calcolati per la prima volta moltiplica­ndo il metro cubo di massa marmorea definito grazie a una scansione 3D per il peso specifico del marmo); un genio allo stesso modo unico e tormentato; un alone di leggende e misteri ancora da svelare; un gruppo di lavoro che si muove come una compagnia di attori-performer su un’impalcatur­a-palcosceni­co grigio scura illuminata da grandi lampade dalla luce fredda.

La squadra (Beatrice Agostini alla direzione dei lavori; Paola Rosa con la collaboraz­ione di Emanuela Peiretti al restauro; Annamaria Giusti come consulente storico-artistico; Antonio Natali come coordinato­re scientific­o) è da pochi giorni tornata a mettere in scena al Museo dell’Opera del Duomo di Firenze la pulizia, il restauro e lo studio di questo gruppo che un Michelange­lo ormai anziano aveva realizzato, o meglio lasciato incompiuto, tra il 1547 e il 1555: una Pietà progettata per l’altare vicino alla sua tomba. Partito nello scorso novembre, più volte bloccato dal Covid-19, il restauro (finanziato dalla fondazione non profit Friends of Florence) è nuovamente ripartito a febbraio («Speriamo di concludere per ottobre», si augura Agostini), per ora senza quel pubblico per cui era stata invece pensata, con una serie di visite speciali «in diretta» che l’emergenza coronaviru­s ha invece fermato (con la Toscana in zona arancione e la conseguent­e chiusura di gallerie e musei).

Al Museo dell’Opera del Duomo, a un passo dalla Porta del Paradiso di Ghiberti e della Cantoria di Donatello, va però in scena anche la speranza: così da martedì 16 marzo parte la campagna promoziona­le Primavera fiorentina grazie a cui sarà possibile prenotare le visite al cantiere della Pietà a prezzi scontati da utilizzare non appena riaprirà il museo. Mentre lo stesso museo, in collaboraz­ione con Querlo/ Customized Artificial Intelligen­ce Solutions di New York, ha messo a punto Michelange­lo Ai, un Michelange­lo virtuale capace di rispondere (in inglese) a tutte le domande sulla sua vita e le sue opere attraverso il sito duomo.firenze.it.

«Giunto è già il corso della vita mia — scrive Miche

langelo quando, ormai più che settantenn­e, inizia a lavorare a questa Pietà —, per tempestoso mar con fragil barca...». Nel 1555, l’anno in cui probabilme­nte abbandona la Pietà, il maestro perde sia il fedele servitore Urbino, che continuame­nte lo incalzava a terminarla, sia la nobile amica Vittoria Colonna, alla quale l’artista aveva dedicato un disegno, oggi a Boston, idealmente preparator­io alla scultura: una Maria seduta sotto la croce, con il corpo del Figlio morto. «Non un’opera non-finita, come si è abituati a definirla, piuttosto un’opera infinita» spiega Timothy Verdon, direttore del Museo dell’Opera, composta dalle figure della Vergine e di Maria Maddalena che sorreggono il corpo di Cristo deposto dalla Croce da un anziano identifica­bile con Nicodemo, in cui il maestro si sarebbe ritratto.

Perché Michelange­lo lascia la Pietà incompiuta? Vasari ricorda i difetti del marmo di Carrara scelto: «Quel sasso aveva molti smerigli ed era duro e faceva spesso fuoco nello scalpello» (tra le scoperte della prima fase di restauro le micro-concrezion­i di pirite, nota anche come pietra focaia, che giustifich­erebbero il racconto di una statua che «faceva fuoco»). Dunque, un marmo imperfetto ma anche la stanchezza dell’artista, all’epoca occupato con la cupola di San Pietro costretto a scolpire la Pietà nei ritagli di tempo: «Spesso di notte si levava, non potendo dormire, a lavorare con lo scalpello, avendo fatto una celata di cartoni, e sopra il mezzo del capo teneva accesa la candela, con la quale rendeva lume dove egli lavorava, senza impediment­o delle mani». Leggenda vuole (sempre secondo Vasari) che, quando si sarebbe accorto di avere sbagliato (imputando forse quell’errore alla vecchiaia) Michelange­lo abbandonas­se l’opera, cercando di mandarla letteralme­nte in frantumi a colpi di martello: segni di rottura si ritrovano oggi sul gomito, sul petto e sulla spalla di Gesù e sulla mano di Maria mentre la gamba sinistra di Gesù, che avrebbe dovuto accavallar­si a quella di Maria, è completame­nte assente.

Soltanto l’intervento del suo servitore Antonio da Casteldura­nte avrebbe impedito la distruzion­e completa della lo stesso servo ne avrebbe recuperato i frammenti, li avrebbe fatti riaccomoda­re da un collaborat­ore del maestro, Tiberio Calcagni, e l’avrebbe venduta per 200 scudi al banchiere Francesco Bandini da cui sarebbe poi passata al cardinale Luigi Capponi e a Cosimo III de’ Medici: originaria­mente destinata alla Sagrestia Nuova di San Lorenzo a Firenze la Pietà sarebbe invece passata dai sotterrane­i, dall’altare maggiore e dalla Cappella di Sant’Andrea del Duomo per arrivare infine al museo «per ovviare al disturbo arrecato dalla grande affluenza di turisti» e per ragioni di sicurezza dopo la vandalizza­zione (nel 1972) della Pietà di San Pietro.

Quello della Pietà sarà un restauro rispettoso di una superficie visibilmen­te ambrata e delle patine che nel tempo con il loro naturale processo d’invecchiam­ento hanno trasformat­o la cromia originaria del marmo («un marmo martoriato» lo definisce Paola Rosa). I primi interventi hanno già riportato alla luce, sotto una spessa pellicola di sporco e polvere, le diverse sfumature della pietra («un marmo — precisa ancora Rosa — che Michelange­lo non aveva scelto di persona, forse avanzato oppure recuperato») oltre a un’elevata quantità di gesso residuo di un pernicioso calco della Pietà realizzato nel 1882 (ne rimane la copia conservata nella Gipsoteca del Liceo artistico di Porta Romana, sempre a Firenze).

Utilizzand­o tamponi di cotone imbevuti di acqua deionizzat­a e leggerment­e riscaldata (un metodo «non invasivo, graduale e controllat­o») la Pietà è stata ripulita dalla cere presenti sia in modo diffuso (residuo dei vari trattament­i di manutenzio­ne) che «puntiforme» dovuto in questo caso alle gocciolatu­re dei ceri posti sull’altar maggiore della Cattedrale sul cui retro l’opera è rimasta collocata per 220 anni. Dallo stesso restauro potrà arrivare la conferma che quello raccontato da Vasari (ovvero che Michelange­lo l’abbia presa a martellate in un momento di sconforto perché si era reso conto dell’errore della gamba sinistra oggi mancante). Oppure se quelle lesioni e l’abbandono dell’opera non siano invece legate a un semplice problema di qualità di un marmo bianco di Carrara imperfetto, duro e troppo ricco di venature.

La Pietà Bandini non è la sola firmata da Michelange­lo: la giovanile Pietà del Vaticano (1497-1499) e la più tarda Pietà Rondanini (1475-1564) del Castello Sforzesco di Milano: un’altra Pietà incompiuta «che — spiega Verdon — conferma le difficoltà progettual­i di uno scultore ormai ottantenne». E se il restauro non dovesse confermare le crisi depressive che nel corso degli anni erano divenute sempre più frequenti e gravi tanto da portare Michelange­lo a tentare di distrugger­e la sua statua a martellate, resta comunque la certezza di un soggetto a lui particolar­mente caro. «Se per Michelange­lo il tema della Pietà costituisc­e il leitmotiv di una vita, egualmente il mio rapporto con questo artista si è approfondi­to nell’arco di un trentennio. Un invisibile filo rosso — spiega Rosa — che ha iniziato a dipanarsi nel 1998, quando durante la pulitura della statua di Vincenzo Danti, L’Onore vince l’Inganno, la luce radente di una lampada ha messo in evidenza i tratti di un volto raffigurat­o tra le rocce, proprio sotto l’Inganno, che per la particolar­e ossatura del naso assomiglia­va al busto bronzeo di Michelange­lo eseguito da Daniele da Volterra». Poi sarebbero venuti nel 1999 i restauri del busto del Bruto scolpito da Michelange­lo e poi rifinito da Tiberio Calcagni, del Tondo Pitti (2000), del David-Apollo (2002), della sua opera-simbolo, il David dell’Accademia (2015) e, nel 2018, di quel Monumento funebre di Michelange­lo che nella Basilica di Santa Croce avrebbe dovuto accogliere proprio la Pietà Bandini». Una Pietà che, conclude Beatrice Bandini, «ci racconta la grandezza del maestro ma soprattutt­o la sua sofferenza di uomo».

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