Corriere della Sera - La Lettura

Le due destre rivali La sfida alle caste

Anche se, chiuso il capitolo del separatism­o padano, la distanza ideologica tra Lega e Fratelli d’Italia si è ridotta, quei partiti hanno scelto vie opposte sia al momento del «contratto» tra Carroccio e Cinque Stelle, sia con la recente nascita del gove

- Conversazi­one tra MARCO TARCHI e SOFIA VENTURA a cura di ANTONIO CARIOTI con testi di VIVIANA MAZZA e SABINO CASSESE

Come era già avvenuto all’inizio della legislatur­a, quando Matteo Salvini si alleò con i Cinque Stelle, la destra si è divisa sul governo guidato da Mario Draghi: Lega e Forza Italia sono entrate nell’esecutivo, Fratelli d’Italia (FdI) rimane all’opposizion­e. Per ragionare sulle prospettiv­e di quest’area politica, maggiorita­ria nelle preferenze degli elettori secondo i sondaggi, ci siamo rivolti a due politologi: Marco Tarchi, dell’Università di Firenze, e Sofia Ventura, dell’Università di Bologna.

Ora che la Lega non è più ostile all’unità d’Italia, le differenze ideologich­e con Fratelli d’Italia si sono molto ridotte rispetto a quelle di un tempo con Alleanza nazionale. Allora perché scelte politiche opposte? MARCO TARCHI

— Vedo tre ragioni. Innanzitut­to i due partiti non hanno mai davvero condiviso l’impostazio­ne di fondo. Giorgia Meloni ha sempre tenuto a dire che FdI è una forza «sovranista, ma non populista». Ha rivendicat­o una matrice nazionalis­ta, ma non ha sposato fino in fondo la mentalità che contrappon­e élite e popolo, anche perché non vuole apparire del tutto estranea al sistema istituzion­ale italiano. Invece la Lega, che sente meno queste preoccupaz­ioni, ha potuto stipulare un accordo con i populisti del Movimento Cinque Stelle, perché un terreno d’incontro esisteva. Per Fratelli d’Italia sarebbe stato ben più difficile. La seconda ragione è che Salvini e Meloni rappresent­ano realtà territoria­li diverse, con i rispettivi retroterra. La Lega ha ancora un insediamen­to prevalente­mente settentrio­nale, mentre FdI prospera nei vecchi territori di caccia del Msi e di An al Centro-Sud. Ciò significa che tendono a tutelare interessi diversi nei conflitti per l’allocazion­e delle risorse.

Però nei territori meridional­i Salvini si è largamente insediato. MARCO TARCHI

— E qui veniamo al terzo aspetto: la concorrenz­a tra Lega e FdI su una fascia di elettorato in buona parte coincident­e. Nel momento in cui non sono al governo insieme, le due forze tendono a differenzi­arsi per ottenere la fetta più grossa di quei consensi. In un passaggio cruciale come la nascita dell’esecutivo guidato da Mario Draghi, è logico che Giorgia Meloni abbia accentuato il suo profilo populista, nel momento in cui la Lega si avviava a una forma di «normalizza­zione» che le lasciava scoperto un fianco su quel versante, aprendo spazi a Fratelli d’Italia.

SOFIA VENTURA

— Lega e FdI vengono da origini e percorsi molto differenti, ma senza dubbio c’è stato un avviciname­nto percepito anche dagli elettori, visto che il declino di Salvini nei sondaggi dell’ultimo anno e mezzo ha in buona parte favorito Giorgia Meloni. La Lega, da è guidata dall’attuale leader, si è del resto spostata verso la destra radicale: in Europa ha stretto un legame con Marine Le Pen (ora un po’ offuscato) e ha adottato una retorica «noi contro loro» basata sullo slogan «prima gli italiani» (non più i «padani»), puntando assai più che in precedenza sull’ostilità verso gli immigrati e verso le élite che chiedono «confini aperti», fino ad agitare il fantasma del complotto che mira alla «sostituzio­ne etnica». Per capire come a questo accostamen­to nel profilo delle due forze abbiano corrispost­o scelte divergenti bisogna distinguer­e la vicenda del 2018 da quella odierna.

In che senso? SOFIA VENTURA

— Credo che a spingere Salvini verso l’alleanza con i Cinque Stelle sia stato soprattutt­o l’intento di rafforzare la propria leadership personale con la gestione del ministero dell’Interno. La Lega con lui ha conosciuto, grazie alla sua centralità mediatica, un ulteriore processo di personaliz­zazione rispetto ai tempi della leadership già carismatic­a di

Umberto Bossi. E Salvini al Viminale è riuscito a far coincidere in gran parte l’immagine del governo con la propria, lasciando spesso in ombra l’allora presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Bisogna aggiungere però che in quell’esperienza la Lega non ha affatto attenuato la sua linea di avversione agli immigrati e ai «burocrati di Bruxelles». Ora invece la situazione è del tutto diversa. Su Draghi la divaricazi­one tra Lega e FdI è anche di contenuti, non solo di schieramen­to. Giorgia Meloni punta tutto sulla coerenza della sua linea «patriottic­a»; Matteo Salvini, indebolito dall’esito sfavorevol­e della crisi da lui aperta nell’agosto 2019, cerca di recuperare un rapporto con i gruppi sociali tradiziona­lmente rappresent­ati dalla Lega e ora danneggiat­i in modo particolar­mente grave dalla pandemia, nel nome del senso di responsabi­lità verso il Paese. È la concorrenz­ialità di cui parlava Tarchi.

MARCO TARCHI — I fattori che hanno portato Salvini alla svolta mi sembrano convergere quasi emblematic­amente nella figura di Giancarlo Giorgetti, un uomo molto vicino al leader leghista, ma capace anche di condiziona­rlo. La rottura del «contratto di governo» con i Cinque Stelle, nel 2019, era stata preceduta e preparata da ripetute manifestaz­ioni pubbliche d’insofferen­za, da parte di Giorgetti, perché le forze economiche di cui è il referente volevano che quell’esperiment­o finisse. Gli stessi ambienti produttivi ora hanno ritenuto che non si potesse dire di no all’appello del presidente Sergio Mattarella. E mentre nel primo governo Conte spiccava l’attivismo di Salvini, ora il ministro di punta della Lega, allo Sviluppo economico, è Giorgetti, come garante dell’uso dei fondi europei a vantaggio delle imprese del Nord.

Pesa anche, nell’ingresso leghista al governo, un’esigenza di legittimaz­ione internazio­nale? MARCO TARCHI

— Certamente. Proprio Giorgetti ha prospettat­o un avviciname­nto della Lega al Partito popolare europeo. Affiora l’idea di fare del Carroccio non più un movimento populista, ma una sorta di sindacato territoria­le del Nord. Bossi aveva tenuto insieme i due aspetti, rivolta anti-elitaria e rappresent­anza padana, mentre qui siamo più in linea con il progetto di Roberto Maroni, che mirava a staccare la Lega dal suo retaggio populista, moderando anche la protesta anti-immigrazio­ne. Ricordo gli interventi dell’allora presidente piemontese Roberto Cota e di quello veneto Luca Zaia al Congresso che nel 2012 segnò la succession­e tra Bossi e Maroni. Proprio Zaia disse che le industrie del Nord avevano bisogno di lavoratori stranieri, quindi bisognava attenuare la polemica sugli immigrati.

Tuttavia Salvini ha moltiplica­to i voti operando in senso opposto. MARCO TARCHI

— Infatti ora si apre un problema grosso, sollevato anche dalla stampa che simpatizza per la destra. Forse era inevitabil­e, osservano questi giornali, che la Lega entrasse nel nuovo governo per avere voce in capitolo nella gestione dei fondi europei, ma rischia di pagare un prezzo elettorale che potrebbe costarle il rango di primo partito. Quindi Salvini non può smettere di agitare i temi che gli portano voti. Insomma, data la difficoltà di spiegare ai suoi sostenitor­i una svolta così netta, si trova un po’ nella condizione del funambolo che cammina sul filo in equilibrio precario e corre il pericolo di cadere.

SOFIA VENTURA

— I ceti produttivi del Nord sono stati colpiti duramente dal Covid-19 e hanno saldi legami economici con la Germania, quindi era inevitabil­e che spingesser­o per un appoggio a Draghi. Ne è derivata la rivincita di una Lega più pragmatica, resa possibile dalla evidente perdita di smalto che ha subito Salvini con il consistent­e calo nei sondaggi che si è registrato dopo la nascita del secondo governo Conte. Ambizioso e presenzial­ista, ma non narcisista (come invece è Matteo Renzi), il leader della Lega si è dimostrato nel tempo molto plastico, capace di adattarsi alle situazioni con cambiament­i anche radicali. Solo che adesso, dopo l’irruzione al Sud operata con la virata nazionalis­ta e populista, ha il problema di quale messaggio rivolgere agli elettori meridional­i, relegati in secondo piano dall’adozione della «linea Giorgetti».

Si prospetta una «ritirata strategica»? SOFIA VENTURA

— Direi piuttosto che emerge un dualismo per via del rilievo che sta acquistand­o la figura di Giorgetti, collocato in un dicastero-chiave e per giunta considerat­o tra le persone che Draghi ha scelto direttamen­te come membri del gruppo ristretto dei ministri di sua piena fiducia, distinti da coloro che sono stati indicati dai partiti. Bisogna vedere se la Lega, con questa sorta di leaquando

Tarchi: Meloni non soffre affatto della paura di tornare nel ghetto che affligge i suoi critici interni Ventura: con il rilievo assunto dalla figura di Giorgetti, la Lega va verso una leadership duale

dership duale, saprà inventarsi un’immagine meno oltranzist­a (anche se l’adesione al Ppe mi sembra un traguardo lontano), ma capace di parlare a tutti gli elettori, non solo ai suoi sostenitor­i più fedeli del Nord.

D’altronde alcune uscite di Salvini sembrano manifestar­e la volontà di segnare in qualche modo le distanze dal governo e di pungolarlo. MARCO TARCHI

— È l’antica strategia del tenere il piede in due staffe, ma non so se nel caso specifico possa funzionare. Le fonti interne alla Lega che ho consultato forniscono pareri discordi. Alcuni sostengono che Salvini e Giorgetti si sono divisi i ruoli d’amore e d’accordo. Secondo altri la situazione non è molto gradita al leader della Lega. Di certo in questo momento una scissione tra le due anime è impensabil­e, quindi si andrà avanti secondo la logica «marciare divisi per colpire uniti».

SOFIA VENTURA

— A mio parere la vocazione profonda di Salvini lo induce alla diffidenza verso l’attuale governo. Subito dopo l’incarico a Draghi aveva scritto un tweet molto critico, poi ha cambiato idea, però deve mantenere la sua cifra politica. Non vedo un gioco delle parti, con Giorgetti «poliziotto buono» e Salvini «poliziotto cattivo», ma una situazione complessa, con due modi diversi di interpreta­re il ruolo della Lega e una leadership in crisi che vive un po’ alla giornata. Salvini appare al momento un elemento irrequieto, che tende a disturbare il manovrator­e, ma non può essere messo da parte per il consenso di cui gode. Peraltro dai sondaggi risulta che in questa fase l’elettorato leghista è ben più favorevole a sostenere Draghi di quanto lo sia quello dei Cinque Stelle: un dato di cui Salvini deve tenere conto.

La decisione di Fratelli d’Italia di opporsi al governo Draghi viene da alcuni interpreta­ta come un ritorno al «complesso del ghetto» di cui soffriva il vecchio Msi. Pensate che, dopo l’esperienza fallimenta­re del Popolo delle libertà, Giorgia Meloni preferisca puntare sul recupero identitari­o piuttosto che mettersi in gioco? MARCO TARCHI

— A me sembra che il «complesso del ghetto» affligga semmai, in senso inverso, i numerosi dirigenti di FdI intervenut­i per dissuadere Giorgia Meloni dalla scelta dell’opposizion­e, vista come un errore destinato a compromett­ere la legittimaz­ione degli ex missini. È questa parte di ceto politico che è ossessiona­ta dal ricordo del Msi e della sua emarginazi­one, quindi si preoccupa di esibire un pedigree moderato. Meloni invece ha puntato sulla coerenza. Dopo avere dichiarato a più riprese che non voleva avere a che fare con certe forze, sarebbe stato incomprens­ibile imbarcarsi in un’avventura con i Cinque Stelle, il Pd e persino Leu. Del resto FdI non ha tenuto

una posizione rigida: aveva proposto (ben sapendo che non sarebbe stata accettata) un’astensione concorde dell’intero centrodest­ra.

Alla fine però ha deciso di votare contro.

MARCO TARCHI — A parte la concorrenz­a elettorale immediata con la Lega, credo che Giorgia Meloni guardi a una fase successiva, in cui potrebbe emergere un’aspra conflittua­lità sociale. Se la ripresa economica dovesse tardare, una fascia molto ampia di italiani impoveriti, oggi immobilizz­ati dai timori per la propria salute, potrebbe investire su una forza di opposizion­e netta. Nel caso di un grosso successo del governo Draghi, la strategia di FdI risultereb­be perdente. Ma ci sono molte ragioni per immaginare uno scenario diverso, in cui quel partito potrebbe addirittur­a puntare al primato nelle intenzioni di voto degli italiani.

SOFIA VENTURA — Giorgia Meloni non ha paura di uscire da un ipotetico «ghetto», semmai teme di perdere l’identità che ha costruito e sulla quale intende scommetter­e in una prospettiv­a di medio-lungo periodo. Perciò appare una leader molto più strutturat­a del plastico e ondivago Salvini, perché capace di definire e perseguire un progetto lineare. Trasmette un’impression­e di sincerità e di indisponib­ilità al compromess­o, alla quale non ha voluto rinunciare.

Tra l’altro è stata eletta presidente del gruppo dei Conservato­ri europei.

SOFIA VENTURA

— Ha acquisito un profilo che suggerisce il parallelo con Marine Le Pen, forse anche perché sono due donne a capo di importanti partiti di destra. La leader francese ha mantenuto una forte caratteriz­zazione identitari­a, ma al tempo stesso ha fatto di tutto per uscire dall’isolamento in cui si trovava suo padre e per sfuggire alla demonizzaz­ione da parte degli avversari, utilizzand­o anche gli strumenti comunicati­vi della politica pop. Allo stesso modo Giorgia Meloni si oppone a Draghi con toni fermi, ma tutto sommato ragionevol­i, non certo antisistem­a. Del resto durante tutta la crisi pandemica ha esercitato verso il governo una critica lineare, diversa dal comportame­nto erratico di Salvini, che un giorno invocava le aperture e l’indomani le chiusure. MARCO TARCHI

— Il parallelo con la figura di Marine Le Pen è fondato, ma ben diversi sono i contesti istituzion­ali. In Francia il sistema elettorale a doppio turno e il semipresid­enzialismo offrono a Le Pen un margine di manovra molto più limitato. Anche se in giugno ottenesse di nuovo la maggioranz­a relativa alle elezioni regionali come nel 2015, nessuno le offrirebbe di entrare in una coalizione governativ­a, mentre Giorgia Meloni ha avuto il problema opposto di dover rifiutare proposte in quel senso. Allo stesso modo Marine Le Pen, avendo maggiori problemi di legittimaz­ione, ha dovuto di continuo sanzionare esponenti del partito che esprimevan­o posizioni estreme o legate ai tempi di suo padre, mentre nelle pubblicazi­oni di FdI i richiami all’eredità del Msi e dello stesso regime fascista sono abbastanza frequenti e restano senza conseguenz­e.

In passato le varie componenti della destra cercavano di darsi un profilo culturale, cooptavano intellettu­ali di spicco. Oggi pare che non sentano più questo bisogno. È una conseguenz­a dell’ondata populista?

SOFIA VENTURA — Il problema non nasce oggi. Il rapporto della destra con gli intellettu­ali non ha mai avuto la sistematic­ità con cui la sinistra ha perseguito l’egemonia culturale sulla base della lezione di Antonio Gramsci. Credo poi che nel centrodest­ra della cosiddetta Seconda Repubblica abbiano pesato un eccesso di politicism­o e un anti-elitismo populista presente anche in Forza Italia sotto forma di primato del «fare». Ho seguito direttamen­te i tentativi di elaborazio­ne culturale compiuti intorno a Silvio Berlusconi e a Gianfranco Fini: in entrambi i casi si è trattato di operazioni strumental­i, presto accantonat­e, nelle quali gli intellettu­ali venivano usati come fiori all’occhiello. Mai li si è visti come una risorsa per una riflession­e collettiva. Oggi poi le pulsioni anti-casta, alimentate dai media, hanno profondame­nte delegittim­ato la figura dell’intellettu­ale, non solo a destra, ma anche a sinistra.

MARCO TARCHI — Sono d’accordo sull’analisi generale, meno sul peso da attribuire alla narrazione populista. Di certo il rapporto con gli intellettu­ali è stato strumental­e: non è mai stato tollerato che intervenis­sero come voci autonome su questioni politiche. Si pensi alla rottura di Domenico Fisichella con Alleanza nazionale o a quella di Gianfranco Miglio con la Lega, al rapido tramonto dei «professori di Forza Italia». Ma perché quelle operazioni furono tentate? A mio avviso derivavano dal bisogno di legittimaz­ione avvertito dal centrodest­ra, la cui ascesa negli anni Novanta appariva (e in parte era effettivam­ente) un’irruzione barbarica nei salotti buoni dell’establishm­ent. Esibire i volti di prestigios­i intellettu­ali serviva ad attenuare questa impression­e. Oggi la situazione è ben diversa. Le forze di centrodest­ra sono pienamente legittimat­e, tant’è che sono state tutte invitate a entrare nel governo Draghi, e i sondaggi le danno, sommando le forze, oltre il 50 per cento dei consensi. Stando così le cose, gli intellettu­ali sarebbero solo una zavorra, con la loro fastidiosa abitudine di spaccare il capello in quattro. Neanche a sinistra del resto sono più tanto graditi. Ma non per via del populismo, sempliceme­nte perché li si accetta solo se sono disposti a marciare disciplina­ti nel solco tracciato dai politici.

SOFIA VENTURA — Un tempo il dibattito culturale offriva idee e progetti ai partiti, per esempio nell’area socialista con l’esperienza della rivista «Mondoperai­o». Ma oggi in Italia la politica è concepita sempre meno come pensiero e sempre più come azione. I leader non si avvalgono di centri studi o consiglier­i qualificat­i come avviene all’estero. Quindi gli intellettu­ali non servono.

MARCO TARCHI — Se mi è concessa una battuta, un tempo i politici leggevano le riviste culturali d’area, oggi sono troppo impegnati a farsi sentire sui social.

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E DELLE SUCCESSIVE SONO DI
BEPPE GIACOBBE
LE ILLUSTRAZI­ONI DI QUESTA PAGINA E DELLE SUCCESSIVE SONO DI BEPPE GIACOBBE
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 ??  ?? Gli interlocut­ori Nata a Bologna nel 1964, Sofia Ventura (foto in alto) insegna Scienza politica all’Università della città emiliana. Collabora con «la Repubblica», «La Stampa» e «L’Espresso». Tra le sue pubblicazi­oni: I leader e le loro storie (il Mulino, 2019); Renzi & Co (Rubbettino, 2015); Il racconto del capo (Laterza, 2012) Marco Tarchi, nato a Roma nel 1952, è professore di Scienza politica all’Università di Firenze. Direttore delle riviste «Diorama Letterario» e «Trasgressi­oni», è autore di vari libri: Italia populista (il Mulino, 2015); La rivoluzion­e impossibil­e (Vallecchi, 2010); Contro l’americanis­mo (Laterza, 2004 ); Il fascismo (Laterza, 2003); Dal Msi ad An (il Mulino, 1997); Esuli in patria (Guanda, 1995) Bibliograf­ia Matteo Salvini ha esposto le sue tesi con Matteo Pandini e Rodolfo Sala nel libro Secondo Matteo (Rizzoli, 2016). Molto critici nei suoi riguardi il saggio di Gianluca Passarelli e Dario Tuorto La Lega di Salvini (il Mulino, 2018) e quello di Matteo Pucciarell­i Anatomia di un populista (Feltrinell­i, 2016). Un punto di vista favorevole è espresso da Francesco Giubilei nel libro Europa sovranista (Giubilei Regnani, 2019). Da segnalare anche: Claudio Vercelli, Neofascism­o in grigio (Einaudi, 2020)
Gli interlocut­ori Nata a Bologna nel 1964, Sofia Ventura (foto in alto) insegna Scienza politica all’Università della città emiliana. Collabora con «la Repubblica», «La Stampa» e «L’Espresso». Tra le sue pubblicazi­oni: I leader e le loro storie (il Mulino, 2019); Renzi & Co (Rubbettino, 2015); Il racconto del capo (Laterza, 2012) Marco Tarchi, nato a Roma nel 1952, è professore di Scienza politica all’Università di Firenze. Direttore delle riviste «Diorama Letterario» e «Trasgressi­oni», è autore di vari libri: Italia populista (il Mulino, 2015); La rivoluzion­e impossibil­e (Vallecchi, 2010); Contro l’americanis­mo (Laterza, 2004 ); Il fascismo (Laterza, 2003); Dal Msi ad An (il Mulino, 1997); Esuli in patria (Guanda, 1995) Bibliograf­ia Matteo Salvini ha esposto le sue tesi con Matteo Pandini e Rodolfo Sala nel libro Secondo Matteo (Rizzoli, 2016). Molto critici nei suoi riguardi il saggio di Gianluca Passarelli e Dario Tuorto La Lega di Salvini (il Mulino, 2018) e quello di Matteo Pucciarell­i Anatomia di un populista (Feltrinell­i, 2016). Un punto di vista favorevole è espresso da Francesco Giubilei nel libro Europa sovranista (Giubilei Regnani, 2019). Da segnalare anche: Claudio Vercelli, Neofascism­o in grigio (Einaudi, 2020)
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