Corriere della Sera - La Lettura
Le due destre rivali La sfida alle caste
Anche se, chiuso il capitolo del separatismo padano, la distanza ideologica tra Lega e Fratelli d’Italia si è ridotta, quei partiti hanno scelto vie opposte sia al momento del «contratto» tra Carroccio e Cinque Stelle, sia con la recente nascita del gove
Come era già avvenuto all’inizio della legislatura, quando Matteo Salvini si alleò con i Cinque Stelle, la destra si è divisa sul governo guidato da Mario Draghi: Lega e Forza Italia sono entrate nell’esecutivo, Fratelli d’Italia (FdI) rimane all’opposizione. Per ragionare sulle prospettive di quest’area politica, maggioritaria nelle preferenze degli elettori secondo i sondaggi, ci siamo rivolti a due politologi: Marco Tarchi, dell’Università di Firenze, e Sofia Ventura, dell’Università di Bologna.
Ora che la Lega non è più ostile all’unità d’Italia, le differenze ideologiche con Fratelli d’Italia si sono molto ridotte rispetto a quelle di un tempo con Alleanza nazionale. Allora perché scelte politiche opposte? MARCO TARCHI
— Vedo tre ragioni. Innanzitutto i due partiti non hanno mai davvero condiviso l’impostazione di fondo. Giorgia Meloni ha sempre tenuto a dire che FdI è una forza «sovranista, ma non populista». Ha rivendicato una matrice nazionalista, ma non ha sposato fino in fondo la mentalità che contrappone élite e popolo, anche perché non vuole apparire del tutto estranea al sistema istituzionale italiano. Invece la Lega, che sente meno queste preoccupazioni, ha potuto stipulare un accordo con i populisti del Movimento Cinque Stelle, perché un terreno d’incontro esisteva. Per Fratelli d’Italia sarebbe stato ben più difficile. La seconda ragione è che Salvini e Meloni rappresentano realtà territoriali diverse, con i rispettivi retroterra. La Lega ha ancora un insediamento prevalentemente settentrionale, mentre FdI prospera nei vecchi territori di caccia del Msi e di An al Centro-Sud. Ciò significa che tendono a tutelare interessi diversi nei conflitti per l’allocazione delle risorse.
Però nei territori meridionali Salvini si è largamente insediato. MARCO TARCHI
— E qui veniamo al terzo aspetto: la concorrenza tra Lega e FdI su una fascia di elettorato in buona parte coincidente. Nel momento in cui non sono al governo insieme, le due forze tendono a differenziarsi per ottenere la fetta più grossa di quei consensi. In un passaggio cruciale come la nascita dell’esecutivo guidato da Mario Draghi, è logico che Giorgia Meloni abbia accentuato il suo profilo populista, nel momento in cui la Lega si avviava a una forma di «normalizzazione» che le lasciava scoperto un fianco su quel versante, aprendo spazi a Fratelli d’Italia.
SOFIA VENTURA
— Lega e FdI vengono da origini e percorsi molto differenti, ma senza dubbio c’è stato un avvicinamento percepito anche dagli elettori, visto che il declino di Salvini nei sondaggi dell’ultimo anno e mezzo ha in buona parte favorito Giorgia Meloni. La Lega, da è guidata dall’attuale leader, si è del resto spostata verso la destra radicale: in Europa ha stretto un legame con Marine Le Pen (ora un po’ offuscato) e ha adottato una retorica «noi contro loro» basata sullo slogan «prima gli italiani» (non più i «padani»), puntando assai più che in precedenza sull’ostilità verso gli immigrati e verso le élite che chiedono «confini aperti», fino ad agitare il fantasma del complotto che mira alla «sostituzione etnica». Per capire come a questo accostamento nel profilo delle due forze abbiano corrisposto scelte divergenti bisogna distinguere la vicenda del 2018 da quella odierna.
In che senso? SOFIA VENTURA
— Credo che a spingere Salvini verso l’alleanza con i Cinque Stelle sia stato soprattutto l’intento di rafforzare la propria leadership personale con la gestione del ministero dell’Interno. La Lega con lui ha conosciuto, grazie alla sua centralità mediatica, un ulteriore processo di personalizzazione rispetto ai tempi della leadership già carismatica di
Umberto Bossi. E Salvini al Viminale è riuscito a far coincidere in gran parte l’immagine del governo con la propria, lasciando spesso in ombra l’allora presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Bisogna aggiungere però che in quell’esperienza la Lega non ha affatto attenuato la sua linea di avversione agli immigrati e ai «burocrati di Bruxelles». Ora invece la situazione è del tutto diversa. Su Draghi la divaricazione tra Lega e FdI è anche di contenuti, non solo di schieramento. Giorgia Meloni punta tutto sulla coerenza della sua linea «patriottica»; Matteo Salvini, indebolito dall’esito sfavorevole della crisi da lui aperta nell’agosto 2019, cerca di recuperare un rapporto con i gruppi sociali tradizionalmente rappresentati dalla Lega e ora danneggiati in modo particolarmente grave dalla pandemia, nel nome del senso di responsabilità verso il Paese. È la concorrenzialità di cui parlava Tarchi.
MARCO TARCHI — I fattori che hanno portato Salvini alla svolta mi sembrano convergere quasi emblematicamente nella figura di Giancarlo Giorgetti, un uomo molto vicino al leader leghista, ma capace anche di condizionarlo. La rottura del «contratto di governo» con i Cinque Stelle, nel 2019, era stata preceduta e preparata da ripetute manifestazioni pubbliche d’insofferenza, da parte di Giorgetti, perché le forze economiche di cui è il referente volevano che quell’esperimento finisse. Gli stessi ambienti produttivi ora hanno ritenuto che non si potesse dire di no all’appello del presidente Sergio Mattarella. E mentre nel primo governo Conte spiccava l’attivismo di Salvini, ora il ministro di punta della Lega, allo Sviluppo economico, è Giorgetti, come garante dell’uso dei fondi europei a vantaggio delle imprese del Nord.
Pesa anche, nell’ingresso leghista al governo, un’esigenza di legittimazione internazionale? MARCO TARCHI
— Certamente. Proprio Giorgetti ha prospettato un avvicinamento della Lega al Partito popolare europeo. Affiora l’idea di fare del Carroccio non più un movimento populista, ma una sorta di sindacato territoriale del Nord. Bossi aveva tenuto insieme i due aspetti, rivolta anti-elitaria e rappresentanza padana, mentre qui siamo più in linea con il progetto di Roberto Maroni, che mirava a staccare la Lega dal suo retaggio populista, moderando anche la protesta anti-immigrazione. Ricordo gli interventi dell’allora presidente piemontese Roberto Cota e di quello veneto Luca Zaia al Congresso che nel 2012 segnò la successione tra Bossi e Maroni. Proprio Zaia disse che le industrie del Nord avevano bisogno di lavoratori stranieri, quindi bisognava attenuare la polemica sugli immigrati.
Tuttavia Salvini ha moltiplicato i voti operando in senso opposto. MARCO TARCHI
— Infatti ora si apre un problema grosso, sollevato anche dalla stampa che simpatizza per la destra. Forse era inevitabile, osservano questi giornali, che la Lega entrasse nel nuovo governo per avere voce in capitolo nella gestione dei fondi europei, ma rischia di pagare un prezzo elettorale che potrebbe costarle il rango di primo partito. Quindi Salvini non può smettere di agitare i temi che gli portano voti. Insomma, data la difficoltà di spiegare ai suoi sostenitori una svolta così netta, si trova un po’ nella condizione del funambolo che cammina sul filo in equilibrio precario e corre il pericolo di cadere.
SOFIA VENTURA
— I ceti produttivi del Nord sono stati colpiti duramente dal Covid-19 e hanno saldi legami economici con la Germania, quindi era inevitabile che spingessero per un appoggio a Draghi. Ne è derivata la rivincita di una Lega più pragmatica, resa possibile dalla evidente perdita di smalto che ha subito Salvini con il consistente calo nei sondaggi che si è registrato dopo la nascita del secondo governo Conte. Ambizioso e presenzialista, ma non narcisista (come invece è Matteo Renzi), il leader della Lega si è dimostrato nel tempo molto plastico, capace di adattarsi alle situazioni con cambiamenti anche radicali. Solo che adesso, dopo l’irruzione al Sud operata con la virata nazionalista e populista, ha il problema di quale messaggio rivolgere agli elettori meridionali, relegati in secondo piano dall’adozione della «linea Giorgetti».
Si prospetta una «ritirata strategica»? SOFIA VENTURA
— Direi piuttosto che emerge un dualismo per via del rilievo che sta acquistando la figura di Giorgetti, collocato in un dicastero-chiave e per giunta considerato tra le persone che Draghi ha scelto direttamente come membri del gruppo ristretto dei ministri di sua piena fiducia, distinti da coloro che sono stati indicati dai partiti. Bisogna vedere se la Lega, con questa sorta di leaquando
Tarchi: Meloni non soffre affatto della paura di tornare nel ghetto che affligge i suoi critici interni Ventura: con il rilievo assunto dalla figura di Giorgetti, la Lega va verso una leadership duale
dership duale, saprà inventarsi un’immagine meno oltranzista (anche se l’adesione al Ppe mi sembra un traguardo lontano), ma capace di parlare a tutti gli elettori, non solo ai suoi sostenitori più fedeli del Nord.
D’altronde alcune uscite di Salvini sembrano manifestare la volontà di segnare in qualche modo le distanze dal governo e di pungolarlo. MARCO TARCHI
— È l’antica strategia del tenere il piede in due staffe, ma non so se nel caso specifico possa funzionare. Le fonti interne alla Lega che ho consultato forniscono pareri discordi. Alcuni sostengono che Salvini e Giorgetti si sono divisi i ruoli d’amore e d’accordo. Secondo altri la situazione non è molto gradita al leader della Lega. Di certo in questo momento una scissione tra le due anime è impensabile, quindi si andrà avanti secondo la logica «marciare divisi per colpire uniti».
SOFIA VENTURA
— A mio parere la vocazione profonda di Salvini lo induce alla diffidenza verso l’attuale governo. Subito dopo l’incarico a Draghi aveva scritto un tweet molto critico, poi ha cambiato idea, però deve mantenere la sua cifra politica. Non vedo un gioco delle parti, con Giorgetti «poliziotto buono» e Salvini «poliziotto cattivo», ma una situazione complessa, con due modi diversi di interpretare il ruolo della Lega e una leadership in crisi che vive un po’ alla giornata. Salvini appare al momento un elemento irrequieto, che tende a disturbare il manovratore, ma non può essere messo da parte per il consenso di cui gode. Peraltro dai sondaggi risulta che in questa fase l’elettorato leghista è ben più favorevole a sostenere Draghi di quanto lo sia quello dei Cinque Stelle: un dato di cui Salvini deve tenere conto.
La decisione di Fratelli d’Italia di opporsi al governo Draghi viene da alcuni interpretata come un ritorno al «complesso del ghetto» di cui soffriva il vecchio Msi. Pensate che, dopo l’esperienza fallimentare del Popolo delle libertà, Giorgia Meloni preferisca puntare sul recupero identitario piuttosto che mettersi in gioco? MARCO TARCHI
— A me sembra che il «complesso del ghetto» affligga semmai, in senso inverso, i numerosi dirigenti di FdI intervenuti per dissuadere Giorgia Meloni dalla scelta dell’opposizione, vista come un errore destinato a compromettere la legittimazione degli ex missini. È questa parte di ceto politico che è ossessionata dal ricordo del Msi e della sua emarginazione, quindi si preoccupa di esibire un pedigree moderato. Meloni invece ha puntato sulla coerenza. Dopo avere dichiarato a più riprese che non voleva avere a che fare con certe forze, sarebbe stato incomprensibile imbarcarsi in un’avventura con i Cinque Stelle, il Pd e persino Leu. Del resto FdI non ha tenuto
una posizione rigida: aveva proposto (ben sapendo che non sarebbe stata accettata) un’astensione concorde dell’intero centrodestra.
Alla fine però ha deciso di votare contro.
MARCO TARCHI — A parte la concorrenza elettorale immediata con la Lega, credo che Giorgia Meloni guardi a una fase successiva, in cui potrebbe emergere un’aspra conflittualità sociale. Se la ripresa economica dovesse tardare, una fascia molto ampia di italiani impoveriti, oggi immobilizzati dai timori per la propria salute, potrebbe investire su una forza di opposizione netta. Nel caso di un grosso successo del governo Draghi, la strategia di FdI risulterebbe perdente. Ma ci sono molte ragioni per immaginare uno scenario diverso, in cui quel partito potrebbe addirittura puntare al primato nelle intenzioni di voto degli italiani.
SOFIA VENTURA — Giorgia Meloni non ha paura di uscire da un ipotetico «ghetto», semmai teme di perdere l’identità che ha costruito e sulla quale intende scommettere in una prospettiva di medio-lungo periodo. Perciò appare una leader molto più strutturata del plastico e ondivago Salvini, perché capace di definire e perseguire un progetto lineare. Trasmette un’impressione di sincerità e di indisponibilità al compromesso, alla quale non ha voluto rinunciare.
Tra l’altro è stata eletta presidente del gruppo dei Conservatori europei.
SOFIA VENTURA
— Ha acquisito un profilo che suggerisce il parallelo con Marine Le Pen, forse anche perché sono due donne a capo di importanti partiti di destra. La leader francese ha mantenuto una forte caratterizzazione identitaria, ma al tempo stesso ha fatto di tutto per uscire dall’isolamento in cui si trovava suo padre e per sfuggire alla demonizzazione da parte degli avversari, utilizzando anche gli strumenti comunicativi della politica pop. Allo stesso modo Giorgia Meloni si oppone a Draghi con toni fermi, ma tutto sommato ragionevoli, non certo antisistema. Del resto durante tutta la crisi pandemica ha esercitato verso il governo una critica lineare, diversa dal comportamento erratico di Salvini, che un giorno invocava le aperture e l’indomani le chiusure. MARCO TARCHI
— Il parallelo con la figura di Marine Le Pen è fondato, ma ben diversi sono i contesti istituzionali. In Francia il sistema elettorale a doppio turno e il semipresidenzialismo offrono a Le Pen un margine di manovra molto più limitato. Anche se in giugno ottenesse di nuovo la maggioranza relativa alle elezioni regionali come nel 2015, nessuno le offrirebbe di entrare in una coalizione governativa, mentre Giorgia Meloni ha avuto il problema opposto di dover rifiutare proposte in quel senso. Allo stesso modo Marine Le Pen, avendo maggiori problemi di legittimazione, ha dovuto di continuo sanzionare esponenti del partito che esprimevano posizioni estreme o legate ai tempi di suo padre, mentre nelle pubblicazioni di FdI i richiami all’eredità del Msi e dello stesso regime fascista sono abbastanza frequenti e restano senza conseguenze.
In passato le varie componenti della destra cercavano di darsi un profilo culturale, cooptavano intellettuali di spicco. Oggi pare che non sentano più questo bisogno. È una conseguenza dell’ondata populista?
SOFIA VENTURA — Il problema non nasce oggi. Il rapporto della destra con gli intellettuali non ha mai avuto la sistematicità con cui la sinistra ha perseguito l’egemonia culturale sulla base della lezione di Antonio Gramsci. Credo poi che nel centrodestra della cosiddetta Seconda Repubblica abbiano pesato un eccesso di politicismo e un anti-elitismo populista presente anche in Forza Italia sotto forma di primato del «fare». Ho seguito direttamente i tentativi di elaborazione culturale compiuti intorno a Silvio Berlusconi e a Gianfranco Fini: in entrambi i casi si è trattato di operazioni strumentali, presto accantonate, nelle quali gli intellettuali venivano usati come fiori all’occhiello. Mai li si è visti come una risorsa per una riflessione collettiva. Oggi poi le pulsioni anti-casta, alimentate dai media, hanno profondamente delegittimato la figura dell’intellettuale, non solo a destra, ma anche a sinistra.
MARCO TARCHI — Sono d’accordo sull’analisi generale, meno sul peso da attribuire alla narrazione populista. Di certo il rapporto con gli intellettuali è stato strumentale: non è mai stato tollerato che intervenissero come voci autonome su questioni politiche. Si pensi alla rottura di Domenico Fisichella con Alleanza nazionale o a quella di Gianfranco Miglio con la Lega, al rapido tramonto dei «professori di Forza Italia». Ma perché quelle operazioni furono tentate? A mio avviso derivavano dal bisogno di legittimazione avvertito dal centrodestra, la cui ascesa negli anni Novanta appariva (e in parte era effettivamente) un’irruzione barbarica nei salotti buoni dell’establishment. Esibire i volti di prestigiosi intellettuali serviva ad attenuare questa impressione. Oggi la situazione è ben diversa. Le forze di centrodestra sono pienamente legittimate, tant’è che sono state tutte invitate a entrare nel governo Draghi, e i sondaggi le danno, sommando le forze, oltre il 50 per cento dei consensi. Stando così le cose, gli intellettuali sarebbero solo una zavorra, con la loro fastidiosa abitudine di spaccare il capello in quattro. Neanche a sinistra del resto sono più tanto graditi. Ma non per via del populismo, semplicemente perché li si accetta solo se sono disposti a marciare disciplinati nel solco tracciato dai politici.
SOFIA VENTURA — Un tempo il dibattito culturale offriva idee e progetti ai partiti, per esempio nell’area socialista con l’esperienza della rivista «Mondoperaio». Ma oggi in Italia la politica è concepita sempre meno come pensiero e sempre più come azione. I leader non si avvalgono di centri studi o consiglieri qualificati come avviene all’estero. Quindi gli intellettuali non servono.
MARCO TARCHI — Se mi è concessa una battuta, un tempo i politici leggevano le riviste culturali d’area, oggi sono troppo impegnati a farsi sentire sui social.