Corriere della Sera - La Lettura
I sociologi a lezione da Darwin
Metafore Studiare le comunità umane come fossero organismi
La società è un organismo? Che i legami sociali somiglino alle interazioni fra le cellule e quindi una comunità funzioni come un essere vivente è sempre stata un’ipotesi affascinante. Fin dal Seicento, quando l’inglese Thomas Hobbes immaginò lo Stato moderno come un’entità gigantesca, il Leviatano, formata da una miriade di individui, ognuno con compiti specifici, a seconda della posizione assunta. Il Leviatano offriva già, nella sua grossolana rappresentazione, l’idea di un corpo sociale nel quale i cittadini collaborano strettamente in vista di un fine comune.
Quando nel 1893 Émile Durkheim, padre della sociologia, scrive La divisione del lavoro sociale, deve aver presente la creatura di Hobbes, tanto da parlare di individui come molecole di una società organica: dalle comunità semplici, come le tribù, a quelle più complesse, dove vige una «solidarietà organica», in cui donne e uomini svolgono attività diverse che li distinguono e li completano. Ma mentre Durkheim concentra la sua attenzione sull’essere sociale, l’altro grande sociologo della modernità, Max Weber, guarda più al soggetto, alla figura autonoma che sceglie come relazionarsi con il prossimo. Il Leviatano ha già perduto la sua compattezza, l’individuo non è più costretto a portare il peso del suo compito ma lo accetta liberamente solo se ne comprende la convenienza. Da allora, lungo un secolo in cui si sono susseguite disparate teorizzazioni, gli studi sulla società come organismo vivente non hanno cessato di sollecitare nuove interpretazioni.
La domanda, infatti, è: le relazioni umane sono solo frutto di una cultura o dipendono anche dalla fisiologia degli individui? Che il genoma umano contribuisca a determinare le azioni sociali, insieme al patrimonio maturato grazie all’evoluzione della specie, si è fatto sempre più evidente. In questo la teoria darwiniana ha avuto un’importanza decisiva e ha incrementato ricerche interdisciplinari che uniscono la sociologia alle altre scienze, tra cui antropologia e sociobiologia.
Nata nel secondo dopoguerra, la sociobiologia ha trovato terreno fertile nello studio di come i fenomeni biologici possano influenzare i comportamenti, colmando l’aspetto che Durkheim e Weber avevano trascurato. Si discute quindi di quanto il genotipo (le informazioni genetiche) influisca sul fenotipo (le caratteristiche esteriori del corpo) e quindi determini le azioni sociali. Di uno dei maggiori rappresentanti di quest’interpretazione, Edward Osborne Wilson, si possono leggere i contributi inclusi nel volume a più voci Sociobiologia e natura umana (Einaudi, 1980) e, in relazione alle teorie neodarwiniste, è illuminante il lavoro di Richard Dawkins, Il gene egoista (Mondadori, 1979), con la teoria dei memi. L’apertura della sociologia alle scienze non ha mancato di influire su Talcott Parsons, la cui teoria del comportamentismo, esposta in La struttura dell’azione sociale (il Mulino, 1962), s’avvale della psicologia sociale di George Herbert Mead. Dal lavoro di Erving Goffman La vita quotidiana come rappresentazione (il Mulino, 1969) praticamente non c’è più ricerca sociologica che non tenga presenti gli aspetti determinati da biologia e genetica, come della filosofia di Arnold Gehlen con la nozione di uomo «carente», in un intreccio straordinario che va da Friedrich Nietzsche a Martin Heidegger.
Del corpo umano tra biologia e sociologia si discute correntemente nelle analisi contemporanee e il sociologo Roberto Cipriani suggerisce, per analogia, di indagare sui «genomi di una comunità di microflora per ottenere l’impronta digitale di un gruppo biosociale». L’abbraccio tra sociologia e biologia giunge a teorizzare il mondo come immenso organismo vivente, secondo un approccio «organicista» (da Herbert Spencer a Ludwig von Bertalanffy): qui il singolo individuo è visto come cellula di un sistema organizzato, in funzione di un ordine all’interno di un sistema gerarchico. Quest’inatteso ritorno a Hobbes s’oppone a un più pragmatico «individualismo», che almeno per ora prevale anche se al prezzo di un cedimento dei legami sociali.