Corriere della Sera - La Lettura
La Siria rinasce in Calabria
Solidarietà Un laboratorio di tessitura nel piccolo centro di Camini unisce un’antica tradizione locale con quella dei rifugiati da una guerra iniziata dieci anni fa, nel marzo 2011. Stole, borse e altri prodotti di cucito sono venduti anche online grazi
«Oggi vi sono permesse le cose buone e vi è lecito anche il cibo di coloro ai quali è stata data la Scrittura e il vostro cibo è lecito a loro». Mohammed Alokla sfoglia il Corano. Sua figlia Douaa è appena tornata da scuola, lei parla l’italiano perfettamente ormai, traduce per lui. «Vivevamo in Siria, ora la nostra casa è qui a Camini». La fuga dalle bombe di una guerra che proprio in questi giorni entra nell’undicesimo anno, la partenza dalla periferia di Damasco nel 2013, dopo che un ordigno ha fatto crollare il muro della loro casa sulla schiena di Mohammed, il passaggio in Libano e infine l’arrivo in Calabria nel 2016 grazie a un corridoio umanitario. Poi gli interventi chirurgici per sostituire i chiodi della piastra di metallo che i medici hanno inserito nella schiena di Mohammed per farlo camminare ancora. «Cosa faremo ora?», «Torneremo un giorno?», «Rimarremo qui?». Le domande galleggiano nell’aria mentre fuori, nella piazza, risuona la stessa melodia del carretto dei gelati che Douaa e le sue sorelle hanno sentito centinaia di volte, qui così come in Siria e in Libano in quegli anni trascorsi in attesa di un futuro.
Pochi metri più in là, tra l’arcolaio e il fuso, i fili si intrecciano lenti, ricordo di quella tecnica che gli antichi monaci bizantini riportarono nella Locride dopo la fuga dall’iconoclastia verso la Grecia, la Siria e tutto il Medio Oriente. Al centro del laboratorio tessile «Ama-La», c’è il telaio a castello ricostruito dal falegname del paese sul modello di quello stesso che teneva chine per ore e ore le donne calabre nell’Ottocento. Qui Douaa ha imparato tanto: come scrivere un progetto, gestire la contabilità, comunicare in rete.
«Sto facendo qualcosa di buono, ne sono orgogliosa. E magari andrò all’università, vorrei diventare giornalista forse, magari scriverò un libro». I sogni dei 19 anni davanti, la paura dei primi giorni in Italia alle spalle, così come il ricordo di quella prima frase pronunciata all’arrivo in Calabria, quando scesa dal bus nella notte, dopo un lungo viaggio. Disse: «Voglio tornare in Siria, voglio tornare a casa».
Ma ora è Camini casa, provincia di Reggio Calabria, una terra che poi così diversa da quella natia non è, tra gli ulivi sulla collina e l’aria che anche in inverno è dolce come una carezza. L’eucalipto che ancora bolle con l’aceto nel pentolone servirà come decorazione per i tessuti, le bucce di melograno fermentato per giorni doneranno colore al filato. Nel laboratorio l’odore dei prodotti naturali si mischia al profumo femminile. «Sono stata a Roma una volta, è stato come in un sogno, è bellissima», racconta Douaa. Il padre l’ha lasciata andare da sola, accompagnata da un’operatrice. «Sono felice che le mie figlie possano studiare, qui sono al sicuro, non corrono i pericoli cui sarebbero esposte in una grande città». Amal, madre di Douaa e moglie di Mohammed, cuce in silenzio. Al suo fianco altre donne, dalla Nigeria, dalla Libia, dalla Somalia. Quando la pandemia ha raggiunto anche questa terra, Amal ha cucinato per tutti, e con le altre donne ha portato da mangiare alle famiglie italiane in quarantena, tutte hanno realizzato le mascherine per il paese intero.
«Ho finito un dottorato a Parigi e sono arrivata qui nel gennaio 2019». Serena Tallarico è la coordinatrice di «Ama-La»
(Ama in tibetano significa donna e madre, mentre La è il suffisso che esprime rispetto). «Di formazione sono antropologa e psicologa. Questo progetto permette alle donne non solo di lavorare ma anche di rielaborare i traumi». I nodi si sciolgono, il lavoro continua regalando pace. Serena alza lo sguardo verso stole e borse, così preziose da sembrare uscite da un atelier parigino. «Non sono qui per caso, in qualche modo posso dire che Camini mi ha accolta, come ha accolto queste donne, anche se scherzando qui mi chiamano l’expat, senza sapere che mio padre è nato a Catanzaro». Passato e tradizioni si intrecciano con il futuro e la speranza, come trama e ordito. Dopo anni anche le donne della regione hanno ripreso a tessere e i giovani chiedono di partecipare ai corsi di formazione.
A permettere la creazione di una piatpile taforma di vendita online per «Ama-La» è stata l’anno scorso l’organizzazione umanitaria Intersos, nell’ambito del programma PartecipAzione sostenuto dall’Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr). Un impegno che — unito all’entusiasmo di Douaa e di Serena — ha permesso (e permette ancora oggi) al laboratorio di iniziare a sostenersi e ampliarsi. «Il supporto che diamo non si ferma al finanziamento e al percorso di formazione ma prosegue anche dopo, con un accompagnamento individuale e di gruppo per accrescere le competenze delle persone rifugiate, supportandole nella scrittura di nuovi progetti, nella ricerca di bandi e fonti di finanziamento. E nella costruzione di ponti con le realtà locali istituzionali e non», spiega Davide Agnolazza di Intersos. E così ora la speranza è che i prodotti cuciti a Camini arrivino lontano.
Giuseppe Alfarano apre le porte del suo ufficio di sindaco. «Anch’io lasciai la mia terra per Firenze quando avevo 19 anni. Ma c’era qualcosa che mi spingeva sempre a tornare. Uno strappo che bruciava dentro. Rientravo per le ferie e vedevo Camini morire, abbandonata, spopolata. Senza sogni. Poi, nel 2007, la vicinanza con la Riace di Mimmo Lucano accende una luce. «Lo capimmo allora, la chiave per riportare la vita era l’accoglienza». Dal primo tentativo a oggi, tanta acqua è passata sotto i ponti. Il registro delle nascite è aperto sul tavolo. Prima che il «sistema Camini» prendesse vita, nasceva un bambino ogni due anni, dal 2017 a oggi, ne sono venuti al mondo 42 di cui 20 italiani e 22 stranieri. E ora gli abitanti di Camini sono 250, ai quali si vanno ad aggiungere 120 tra rifugiati e richiedenti asilo. Sorride di orgoglio Alfarano: «E io, che mai nella mia vita immaginavo di finire a fare il sindaco del mio paese, due mesi fa sono finalmente riuscito a fare installare il bancomat in piazza e spero presto di riaprire la scuola media».
C’è un solo bar a Camini. Nabil Moumen, mediatore culturale, gira lento il cucchiaino nel caffè. È arrivato dal Marocco vent’anni fa. «Oltre all’italiano, lavorando qui ho imparato quattro dialetti arabi, più quello calabro», scherza. Una donna siriana lo aspetta per andare in questura a sistemare i documenti. Stessa origine, stessa guerra. Ma le storie non sono tutte uguali. Tra le sei famiglie siriane che oggi vivono a Camini, c’è anche quella di Khader Alyusuf. Cinque figli maschi, una sola femmina. Khader era un imbianchino ad Aleppo. «Qui non c’è lavoro, voglio andare a Milano, a Lodi c’è un mio amico che può darmi un impiego», dice seduto su una coperta rossa di con le rose stampate, uguale a quelle che si trovano in ogni campo rifugiati del Medio Oriente. I suoi figli però ora vanno a scuola, «dormiamo di notte e non ci svegliano più le bombe», raccontano. Omar, il più piccolo, è stato operato di spina bifida. Se ha bisogno di carne halal la sua famiglia può trovarla nei negozi della zona che si sono attrezzati. Ma arrivare all’ospedale più vicino per le cure non è semplice, i chilometri da fare ogni giorno sono tanti, il costo alto.
«Guarda questo calendario, li vedi tutti questi appuntamenti? Sono le visite mediche solo di questo mese». Dall’ufficio di Rosario Zurzolo passano tutti, anche se lui non c’è quasi mai «perché sono sempre in giro a lavorare». È il 2011 quando la sua cooperativa, la «Eurocoop servizi», abbraccia il progetto di accoglienza, oggi lavora in piena sinergia con il comune. «Abbiamo iniziato in contemporanea alle Primavere arabe. Poi nel 2016 il ministero dell’Interno ci ha proposto di ampliare la rete Sprar (Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati) e ci siamo aperti anche al programma di resettlement per i rifugiati siriani». La particolarità di Camini è che il suo centro di accoglienza «Jungi Mundi» («Unisci il mondo») è diffuso a tal punto che i rifugiati vivono nelle case dell’antico borgo strappate alla rovina. «Siamo quasi tutti figli di operai qui, ci siamo rimboccati le maniche», dice Zurzolo, che oggi offre un impiego a 40 operatori, italiani e rifugiati insieme. «Qui il lavoro bisogna inventarselo per tutti, casi di razzismo non ne abbiamo mai avuti». Ogni laboratorio — da quello tessile, passando per quello di cucina, musica, fino alla ceramica e al doposcuola per i bambini — è aperto a stranieri e italiani. Ogni sei mesi il sostegno per chi vive a Camini si rinnova se il Viminale autorizza la proroga. Altrimenti i rifugiati sono costretti a lasciare la casa che è stata loro assegnata. Ed è allora che tornano l’incertezza e la paura.
«Sai cos’è davvero più importante di tutto? Bait, bait, la casa», Mohammed guarda fuori dalla finestra. Il sole d’inverno sparisce dietro le nuvole sul mare, il Corano è stato riposto sulle scaffale. Le sue figlie ridono tra loro sul terrazzo. Intanto Zurzolo fa l’ultimo giro per le viuzze di pietra del paese, alza lo sguardo, si morde le labbra. «Possiamo sistemare anche questo rudere, non voglio che Mohammed e le sue figlie se ne vadano. Hanno un futuro qui. A Camini».