Corriere della Sera - La Lettura
UNO SPARO IN NOME DEI MORTI ARMENI
Cent’anni fa, il 15 marzo 1921, nella Hardenbergstrasse del quartiere Charlottenburg di Berlino un giovane si avvicina alle spalle di un uomo che procede lentamente e gli spara un colpo di pistola alla nuca. Il passaporto dell’ucciso porta il nome di Ali Salih Bey, ma presto si scopre che si tratta di Talât Paa, fino al 1918 ministro dell’Interno dell’Impero ottomano, che una corte marziale di Istanbul ha condannato a morte nel luglio 1919 per avere organizzato i massacri degli armeni. L’uccisione è il primo atto della «Operazione Nemesi», preparata da Armen Garo, che ha rappresentato gli armeni alla Conferenza di pace di Parigi, per conto del partito Dashnak. Lo scopo è uccidere gli autori del genocidio che sono stati condannati dai tribunali turchi e sono contumaci per la complicità prima tedesca e poi inglese.
Il giovane assassino, subito bloccato dalla folla, si chiama Soghomon Tehlirian, e al magistrato che l’interroga confessa di avere agito in nome della madre, della famiglia, del popolo armeno massacrati per ordine di Talât. Viene processato a inizio giugno e, dopo due giorni di dibattimento, ritenuto «non colpevole». Il suo difensore, l’avvocato Gordon, aveva detto: «Ogni persona dovrebbe sapere che durante il governo di Talât fu versato un mare di sangue, almeno un milione di armeni tra bambini e donne, vecchi e uomini. Se in Hardenbergstrasse si è aggiunta una nuova goccia di sangue dobbiamo consolarci dicendo che è nostro destino vivere in questi tempi terribili».
A discutere del verdetto di Berlino, nella lontana università di Leopoli, è un gruppo di studenti di legge. Tra essi c’è Raphael
Lemkin, che inizia a interrogarsi su come sia possibile che un responsabile di crimini di massa come Talât possa evitare di venire giudicato. Ventitré anni dopo, mentre è in corso il massacro degli ebrei da parte del nazismo, inventa il termine «genocidio», che permetterà di condannare chi stermina un’intera comunità.