Corriere della Sera - La Lettura
Gertrude Stein La mia autobiografia in terza persona
L’«Autobiografia di Alice B. Toklas» fu scritta nel 1933 con la precisa consapevolezza di confezionare un ritratto all’altezza dell’ambizione smisurata, e parecchio frustrata, della sua autrice. Fu per questo che parlò di sé stessa per 760 volte in meno d
L’Autobiografia di Alice B. Toklas fu scritta nel 1933 quando Gertrude Stein era senz’altro una celebrità tra gli artisti e gli amanti del Modernismo, aveva alcuni estimatori fra gli scrittori americani — notoriamente Sherwood Anderson — ma non aveva ancora raggiunto, come scrittrice, la fama cui anelava fin dalla pubblicazione di Tre vite (1909) e che pensava di meritarsi per quello che lei considerava il primo romanzo dell’era moderna, C’era una volta gli americani, scritto tra il 1906 e il 1908, ma pubblicato solo nel 1925 in cinquecento copie dalla Contact Press.
Dopo anni passati a riporre fiducia in editori che cambiavano idea e ritiravano le loro offerte, sembrava giunto il momento in cui, con la traduzione in francese di C’era una volta gli americani intrapresa da Bernard Fay, Stein avrebbe raggiunto quel pubblico più vasto di cui sentiva il bisogno per essere riconosciuta appieno, e non solo come guru culturale. L’Autobiografia di Alice B. Toklas fu scritta con la precisa consapevolezza di confezionare un autoritratto che fosse all’altezza dell’ambizione smisurata, e parecchio frustrata, della sua autrice.
Quale miglior stratagemma poteva escogitare Stein che usare la voce in falsetto della propria compagna, Alice Toklas, per parlare di sé stessa in terza persona? Nel testo si contano all’incirca 760 occorrenze del nome Gertrude Stein, lungo 285 pagine, giusto per farsi un’idea di quanto la sua presenza sia pervasiva e dominante. D’altronde esaminando le immagini in cui Gertrude e Alice vengono ritratte insieme, ad esempio quella scattata nel 1936 dal fotografo inglese Cecil Beaton che fa da copertina all’edizione Penguin dell’Autobiografia, la prossemica è chiarissima: Alice, incastonata fra le due ombre che si proiettano dal suo corpo sul muro, sta sul fondo per dare maggior risalto prospettico all’imponente figura di Gertrude in primo piano.
La stessa cosa accade nell’Autobiografia: dare voce ad Alice Toklas è solo il modo che Stein ha trovato — un modo a dire il vero ingegnoso e inquietante per i risvolti psicologici che fa intravedere nel loro rapporto — per erigere a sé stessa un monumento letterario, senza dovere pronunciare il pronome «io».
In fondo è Alice Toklas a dire di avere incontrato tre geni nella propria vita e uno di questi, insieme a Pablo Picasso e a Alfred North Whitehead, è Gertrude Stein.
Di smargiassate come questa è pieno il libro, insieme a un impressionante uso del name dropping; per Stein è fondamentale non solo elencare tutte le persone che ha conosciuto, ma dare risalto a quelle che l’hanno apprezzata e ne hanno favorito la carriera letteraria come Mildred Aldrich, Mabel Dodge, Edith Sitwell, Sherwood Anderson e Bernard Fay, e fra gli scrittori mettere in evidenza solo i giovani che si sono accostati a lei con deferenza, usando il suo salotto come un passepartout — Hemingway e Fitzgerald, ad esempio.
Stein, sempre tramite la voce di Toklas, non esita ad autodefinirsi la più grande scrittrice vivente di lingua inglese quando, a quest’altezza cronologica, Willa Cather e Virginia Woolf, per citare solo due nomi, avevano già pubblicato alcuni dei loro capolavori. Ma Gertrude Stein si guardava bene dal cercare un confronto con le sue contemporanee: durante il viaggio in Inghilterra nel 1914, organizzato allo scopo di incontrare l’editore John Lane, fa visita a Clive Bell, marito di Vanessa Stephen Bell, sorella di Virginia Stephen Woolf, ma a quest’incontro, dietro il quale sarà senz’altro baluginato il Bloomsbury group, non dedica più che un accenno nell’Autobiografia. D’altronde di Bell, conosciuto in precedenza a Parigi con la moglie e Roger Fry, si era limitata a dire che era divertente prima di diventare un critico d’arte; Lytton Strachey, conosciuto nella casa di campagna dei Whitehead, fa la figura dell’intellettuale idiosincratico e diffidente; T.S. Eliot, incontrato a Parigi una decina d’anni dopo, quella del poeta pedante e inattendibile, e Ezra Pound dell’ospite scorbutico e invadente.
Gertrude Stein aveva creato a tutti gli effetti, in rue de Fleurus a Parigi, una corte in cui il suo prestigio fosse riconosciuto e non messo in discussione. Lei e il fratello Leo avevano aperto le porte a pittori che all’epoca — siamo fra il 1903 e il 1907 — nessuno considerava. Avevano istituito nell’appartamento gli incontri dei sabati sera dove la bohème, composta da artisti e flâneurs in penuria di cibo e carbone, poteva rifocillarsi con un buon pasto e con la possibilità di vedere esposto, comprato e riconosciuto il proprio lavoro. Gli Stein, cresciuti fra l’Europa e gli Stati Uniti, erano cosmopoliti, avevano frequentato ottime università (Harvard Leo, Radcliffe Gertrude), erano genuinamente aperti alla novità, curiosi senza pregiudizi e piuttosto benestanti.
Durante le estati passate a Fiesole frequentavano lo storico dell’arte Bernard Berenson e a Parigi erano riusciti a entrare nelle grazie del mercante con maggior fiuto del momento, Ambroise Vollard, da cui comprarono i loro primi paesaggi e la Donna con ventaglio di Cézanne. L’arrivo a Parigi, nel 1904, dell’altro fratello, Michael Stein, insieme alla moglie Sarah, intenditrice d’arte e collezionista, sarà ugualmente importante: nell’appartamento di rue Madame, questa raffinata coppia, poi committente di una casa di campagna commissionata a Le Corbusier, ospiterà a sua volta i quadri di quegli artisti che già erano piaciuti a Leo e Gertrude. A un certo punto, intorno al 1914, la convivenza e la complicità fra questi ultimi venne meno ma, come nel caso di molti altri
episodi raccontati nell’Autobiografia, non bisogna dare troppo credito all’aneddoto secondo cui Picasso avrebbe detto a Gertrude Stein che Leo era noioso con le sue collezioni di stampe giapponesi. Leo fu non meno essenziale della sorella alla costituzione di uno spazio che era mondano, ma al tempo stesso familiare e accogliente, per gli artisti che a Parigi nei primi anni del Novecento si apprestavano a ripensare a tal punto la tradizione pittorica da ottenere risultati rivoluzionari, cambiando per sempre il concetto di modernità. Le serate del sabato, introdotte da una cena cui seguiva la visita nell’atelier dove a poco a poco cresceva la collezione di quadri e disegni contemporanei — Derain, Juan Gris, Vallotton, Manguin, Picabia —, sancirono quello che forse altrimenti sarebbe stato un momento di dispersione: se per tutti i giovani artisti Cézanne era il maestro indiscusso di una scomposizione della forma e di un uso del colore non più naturalistico ma legato alla percezione soggettiva, gli esiti verso cui ciascuno si avviava non erano affatto comuni. Braque era propenso a uno studio delle geometrie astratte ben prima di conoscere Picasso, il quale nel suo periodo blu era ancora alle prese con rovelli tardoimpressionisti, mentre Matisse seguiva un’altra linea di ricerca ancora più incentrata sul colore. Avrebbero potuto non incontrarsi mai, visto che alcuni di loro non esponevano nei Saloni e non avevano un gallerista importante che li rappresentasse.
In rue de Fleurus si conobbero e acquisirono consapevolezza di qualcosa che stava accadendo; Leo Stein era un eloquente e competente critico che illustrava le loro opere, le metteva in relazione, faceva cogliere scarti e continuità con un’estetica sicura che si sarebbe poi riversata nel libro pubblicato nel 1927 con il titolo The ABC of Aesthetics.
Il salotto degli Stein ebbe la funzione di uno specchio: gli artisti potevano vedersi. E Gertrude Stein cominciò a vedersi tramite loro, tramite lo sguardo di uno in particolare, il giovane Pablo Picasso, con il quale doveva esserci una sintonia caratteriale, prima ancora che estetica: erano entrambi seduttori, amavano liquidare persone e situazioni con battute scherzose quando non proprio tranchant, avevano un’altissima considerazione di sé. L’insistenza da parte di Stein sulla parola «genio», molto ricorrente anche nell’Autobiografia di tutti, rivela l’approccio celebrativo del proprio gusto, delle proprie scelte estetiche e del proprio pensiero.
Il ritratto che Picasso realizzò di Gertrude Stein tra il 1905 e il 1906, al solito enfatizzato dal racconto dell’Autobiografia come frutto di novanta sedute di posa — poco credibili considerata la velocità con cui lavorava lo spagnolo —, divenne per la scrittrice la base di una percezione del proprio destino letterario legato alle sorti dell’avanguardia pittorica. Il cubismo era una sua scoperta, o più probabilmente lo sentiva come una creazione alla quale aveva contribuito, avvenuta fra le pareti del suo appartamento, tra i quadri e i versi di Guillaume Apollinaire, al quale peraltro Gertrude Stein assegna l’invenzione del termine stesso, che invece correntemente si attribuisce al critico Louis Vauxcelles in relazione alla celebre mostra all’Estaque di Marsiglia tenuta da Braque nel 1907.
Il ritratto di Stein eseguito da Picasso, concepito ancora alla maniera del periodo rosa per quanto riguarda l’ambientazione e il corpo della scrittrice, cambia in maniera repentina nel volto, che venne cancellato e ridipinto nel 1906: una maschera, un ovale dai tratti semplificati e arcaicizzati, nel quale si è soliti ravvisare l’emergere della scomposizione cubista.
Stein percepì acutamente questo passaggio e in un certo senso vi modellò sopra la propria poetica; se l’ispirazione di Tre vite le era venuta guardando uno dei primi dipinti di Cézanne acquistati nella galleria di Vollard, la Donna con ventaglio (1879-1882), il ritratto che le fece Picasso promosse in lei l’idea di una necessità di rottura netta con il passato ottocentesco, e con C’era una volta gli americani si prefisse di scrivere il primo libro dell’era moderna.
Ma è possibile tracciare un parallelo tra la prosa di Stein e la pittura cubista da lei scoperta e amata? Molti hanno preso alla lettera le dichiarazioni contenute nell’Autobiografia, tracciando affinità tra la pennellata di Picasso e il fraseggio ripetitivo di Stein, ad esempio. Un parallelo che Picasso stesso definiva ridicolo, stando alla testimonianza di Leo Stein.
Se si spoglia il paragone della sua forza retorica ed evocativa e si considera la prosa di Stein per quello che è, e non per quello che dichiara di voler essere, si in