Corriere della Sera - La Lettura
Ogni casa ha un nome e il nostro destino
In settantotto brevi capitoli e con continui salti temporali Andrea Bajani dà un andamento musicale ai luoghi domestici vissuti, immaginati o anche soltanto fantasticati. Nessun culto della memoria, semmai del ricordo
Chissà quanto è intenzionale l’assenza dell’indice nel nuovo romanzo di Andrea Bajani, Il libro delle case. Che lo sia o meno è comunque significativa, nel senso che se ne sente, come dire?, positivamente la mancanza mentre si attraversano i settantotto brevi capitoli in cui l’autore riepiloga in ordine non cronologico ma modulare, come una fuga musicale intessuta di riprese e di ritorni, la vita di Io, declinato sempre in terza persona, attraverso le case che ha abitato, frequentato o anche solo fantasticato.
Case dotate tutte di un appellativo: la casa del sottosuolo, quella del materasso, quella di Famiglia e quella signorile di Famiglia, quella del sesso, dell’adulterio, dell’amicizia, dello stato, del tumore, di Parenti e di Nonna bambina, del risparmio, del per sempre, dei ricordi fuoriusciti, che si avvicendano ospitando i loro abitanti, incontrati o immaginati (la casa di Prigioniero: la prigione di Aldo Moro; quella della morte di Poeta: Pasolini), con la falsa accondiscendenza di fondali destinati in realtà a conservare la vita rivissuta meglio delle persone in carne e ossa. Nessun animismo, nessun feticismo dei luoghi e degli oggetti, nessun culto della memoria, semmai del ricordo, che non è la stessa cosa, il ricordo che riaffiora come un appunto si sporge da un taccuino (c’è infatti anche la Casa degli appunti, che è esattamente un taccuino così come la Casa del per sempre è una fede nuziale). Ciò che è rimasto, non quello che resta.
La vita che Bajani narra è una vita spezzettata. E se è raccontata tramite continui salti temporali (ma la commessura tra i capitoli è così sapiente che si guadagna in senso ciò che si perde in immediata intellegibilità) è forse perché nessuna di quelle case ha generato una continuità capace di ricongiungersi all’oggi del narratore. Padre, Madre, Nonna, Sorella, Parenti, Moglie, Bambina, Prigioniero e Poeta se ne sono tutti andati, anche se non necessariamente sono morti; o se ne è andato lui. Numeri di telefono che non corrispondono più all’utente, post-it pieni di messaggi d’amore crocefissi ai chiodi dei muri di una casa dove una coppia ha deciso di non essere più tale, nonni visti una volta sola, genitori dai quali non si tornerà mai più. No, tutt’altro che un confortevole turismo della memoria in questo libro. Anche perché la fine, se non la morte, abitava già dall’origine tutte le relazioni in cui Io si è impelagato con la nascita, una Nonna decaduta, un Padre violento, una Madre succube, una Moglie che scampa da un tumore, una relazione adulterina, il servizio civile, i pomeriggi al mare, gli alberghi, le case ricovero prestate dagli amici, i mobili comprati con un assegno circolare e abbandonati dopo vent’anni in un hangar dell’usato, il Novecento coi suoi cadaveri ancora capaci di essere eccellenti…
Ci si può consolare, certo, declamando con Rilke che se una cosa ti manca, nel senso che ti viene a mancare, è testimonianza che l’hai avuta: diciamo che Rilke ha fatto di meglio, e anche Bajani. Certi ricordi sarebbe meglio non averli perché certe cose sarebbe meglio che non fossero accadute. Scaffalando i suoi traumi negli spazi, ora vuoti ora abitati da altri sconosciuti, Io dà sempre l’impressione di essere ridisceso dal Golgota con la consapevolezza di doverci risalire. La forma sinusoidale che il libro assumerebbe se lo si disegnasse non mette capo a un esito di redenzione, ma a un protagonista che prende a calci e pugni la Casa dei ricordi fuoriusciti, paragonata a una macchina da luna park dove un granchio meccanico può pescare o non pescare il premio per chi ha pagato la sua moneta di frustrazione increspata di speranza poco credula. La forma grammaticale degli ultimi paragrafi è un lungo elenco di frasi negative: Io non vedrà questo, Io non vedrà quello, tutto si coprirà di neve come un paesaggio in novembre, e non è detto che sia un male. La neve, «anche se fredda, proteggerà la terra e il suo tepore».
Eppure non si vorrebbe qui dare l’impressione che si tratti di un libro triste. Struggente, a tratti, esacerbante quando il dolore torna e si sa che tornerà a tornare, ma triste no. E non solo per la bravura dell’autore, giunto ormai al pieno controllo dei suoi mezzi e finalmente in pace, in equilibrio, per chi conosce le sue opere precedenti, tra le due anime stilistiche che se lo contendono, un virtuosismo costruttivo e verbale sempre trattenuto, e una riflessività che non affonda mai definitivamente il colpo perché sa non che lo mancherebbe, ma che lo sciuperebbe andando a segno. Struttura, andamento e tono, prima ancora del contenuto, stanno lì ad attestare qualcosa come: tutto questo si può portare, meglio che sopportare, come Tartaruga, prima amica di Io e suo animale totemico, che abita ancora la Casa del sottosuolo dove tutto è cominciato, porta con sé dal Mesozoico la sua dimora e la sua prigione, e troverà sempre qualcuno che le offre una foglia di lattuga e qualche volta compagnia, lei che è destinata a durare così come noi a sopravvivere alle case che siamo stati e alle persone che ci hanno abitati.