Corriere della Sera - La Lettura
Quando sono nata avevo 42 anni
Elisa Ruotolo, insegnante in un istituto tecnico in Campania, rivela come un’adolescenza segnata dai tabù e dalle proibizioni possa protrarsi fino all’età adulta. Finché la scoperta dell’altro e del corpo cambia tutto
«Quando sono nata io, s’erano già disseminate molte infelicità lungo i vari rami di famiglia», racconta la protagonista del nuovo romanzo di Elisa Ruotolo, Quel luogo a me proibito (Feltrinelli). E lo dice come a chiarire che neppure dell’infelicità ha il primato. Lei che si definisce: «Qualcosa di non nato, di non finito», al punto da confondere i tempi, ricordare lì dove non può, in quanto non ancora nata. C’è differenza? Sembra sottintendere, alludere di continuo nella descrizione di sé — mancanza di desideri, cieca ubbidienza — e nei personaggi in cui si rispecchia, tutte esistenze minori, come la donna del colombario, la seconda moglie del nonno («questo abbozzo di donna dal sangue diverso», seduta davanti al camino a rammendare calze, e a nutrirsi di fagioli vecchi), o Rambo, il cane trovato in giardino, e, per volontà del padre, messo in terrazzo senza alcun riparo. Giorno notte, estate inverno, sole pioggia. Da quel terrazzo Rambo scenderà solo da morto. Seppellito nel pezzo di giardino dove è stato trovato.
Nascere e morire nello stesso luogo, di meno, nello stesso angolo di terra. Fondamentale in questo romanzo è infatti la delimitazione dello spazio: casa, recinto di divieti, santuario di pudore. Famiglia: «Una messa in comune del privato, un difetto dell’autonomia, una continua chiamata in causa dell’altro, un sostenersi che diveniva peso. Più esattamente, una reciprocità reciproca a oltranza».
Qui cresce la protagonista senza nome (ma poi: conta il nome? O piuttosto l’appartenenza a una genia di invisibilità?). Cresce la bambina attraverso moniti come «non perderci tempo e testa appresso ai maschi, o la vita non sarà più roba tua» — la madre.
«Tutti ci rispettano, nessuno ci sparla» — sempre la madre, stabilendo il principio di dignità, nonché il senso ultimo dell’esistere, il loro.
Cresce la bambina tra regole come cambiare canale se in televisione c’è qualcosa di lascivo, sia anche un semplice bacio. E l’insegnamento di essere torbida nei «giorni mensili». Ecco, in quei giorni non bisogna toccare piante appena interrate, sennò muoiono; né preparare conserve, marcirebbero. In quei giorni bisogna lavarsi a pezzi, altrimenti il sangue si ferma da qualche parte, e diventi scema, o muori — un mondo arcaico, in apparenza lontanissimo, in realtà contemporaneo, come ci hanno raccontato magnificamente anche Michela Murgia (Accabadora), e Donatella Di Pietrantonio (L’Arminuta).
Cresce la bambina, in una paese della provincia di Caserta, fino agli anni della scuola, allorché il mondo si divide in due: maschi/femmine, e guai ad andare nella metà sbagliata, cosa che lei, figlia ubbidiente, non fa, a differenza di Nicla, compagna di classe, che salta dall’altra parte per arraffare maschi, moltiplicare giovinezza. Nicla che a 13 anni rimane incinta e abbandona la scuola. Da subito alter ego negativo della protagonista: quel che lei non sarà mai, né vuole essere («tutto ciò che per me era osceno e proibito»). Ma che negli anni cambia forma: quello che poteva essere, quello che non ha voluto essere, tutto ciò che si è persa. Perché a un certo punto lei, la figlia ubbidiente, tentenna (inciampa o prende il volo?).
Dopo una vita di osservanza, di disconoscimento del desiderio, incontra Andrea. E con lui scopre il corpo.
A 42 anni si ritrova a dire bugie ai genitori per incontrare l’amato (parcheggi, case abbandonate), si ritrova dove non era ancora stata: «La giovinezza, l’infernale giovinezza che non avevo mai avuto», il luogo proibito del titolo. Un luogo di cui lei non sospettava l’esistenza, un territorio nel quale esistere con il proprio corpo («avevo sempre fatto tutto da sola e negli anni il mio corpo lo avevano toccato solo i medici lungo esami di routine»). Un tempo in cui scoprire sé stessa e l’altro, quando l’altro fin qui era l’altro da accudire («avevo spogliato mio padre, le volte in cui un inciampo circolatorio o la frattura di un arto erano venuti ad aggravare la sua dipendenza»), in una realtà (casa, famiglia) che ha voluto da subito loro, i figli, vecchi. Niente schiamazzi, infanzia bandita.
E adesso? Cosa succede adesso in questa adolescenza tardiva?
La seconda parte del romanzo è dedicata all’incontro con Andrea. Eppure non è questo il cuore della storia. Non il rapporto d’amore, l’emancipazione. Andrea si allontana, sparisce. E lei non fa niente, nessun gesto per trattenerlo (ferocissimo questo lasciarlo andare).
Ecco la grandezza del romanzo: l’incastro temporaneo, questo tornare al via — casa, famiglia. Come Rambo, nato e seppellito nello stesso pezzo di giardino.
Così la terza parte, introdotta da una frase di Cristina Campo «non si può nascere ma si può morire innocenti», non è la realizzazione della storia d’amore, la conquista di una vita diversa — andarsene di casa, separarsi dai genitori, congiungersi con l’amore, trovarne un altro — immaginiamo ogni possibile finale. La conclusione, in apparenza, solo in apparenza, di regressione, è la chiusura più femminista della letteratura italiana degli ultimi tempi.
Che romanzo straordinario ha scritto Elisa Ruotolo, 48 anni, nata e cresciuta a Santa Maria a Vico (Caserta), insegnante di italiano presso un istituto professionale di Aversa; che romanzo unico, meraviglioso ha scritto Elisa Ruotolo che di mondo — per sua ammissione — ne ha visto poco («la prima volta che ho visto Roma avevo quarant’anni»), dimostrandoci che il talento, lo sguardo, persino l’esperienza sono categorie dell’anima, nate e cresciute in un angolo di giardino.