Corriere della Sera - La Lettura
Sì, fu Munch a vandalizzare Munch
Sulla versione del 1893 dell’«Urlo» c’è una scritta a matita: «Può essere stato dipinto solo da un pazzo!» Nuovi esami confermano che a vergare le parole era stato proprio l’artista, ferito dalle parole di un medico nel 1895
«Non lo si può considerare serio né con un cervello normale». Henrik Grosch emette la sua sentenza. Eppure, più dell’augusto direttore del Museo d’arte industriale di Kristiania (la Oslo di allora), a turbare Edvard Munch è un dottorino: Johan Scharffenberg, membro entusiasta della Studentersamfundet (la «società studentesca»), richiamato alla galleria Blomqvist per una visita culturale. L’occasione è imperdibile: Skrik, titolo originale dell’Urlo, che tanto aveva fatto parlare altrove, viene presentato ai concittadini del pittore. Scharffenberg è un aspirante medico, scruta i fiotti di tempera e pastello, partecipa al dibattito citando altre opere, infine si alza con una personalissima diagnosi: «L’autore non può essere sano di mente». Quella sera — ottobre 1895, il quadro risale a due anni prima — Munch è tra il pubblico. La prende malissimo. A farne le spese è il suo stesso dipinto.
La cicatrice c’è ancora, in alto a sinistra, fra le nubi fiammeggianti. Kan kun vaere malet af en gal mand! Una scritta (Può essere stato dipinto solo da un pazzo!) minuscola ma visibile a occhio nudo e sul cui autore gli studiosi si sono a lungo divisi. A essa si fa cenno la prima volta nel 1908, quando Skrik giunge a Copenaghen: l’ipotesi allora era un blitz vandalico legato alle critiche che il lavoro si era attirato. Tesi poi ripresa nel catalogo firmato da Gerd Woll nel 2008. A rimescolare le carte adesso è Mai Britt Guleng, curatrice del Nasjonalmuseet di Oslo, dove si trova il capolavoro: «Non è stato un vandalo. Possiamo dire con certezza che è stato il pittore». A risolvere definitivamente il mistero sono foto a infrarossi, ricerche biografiche e, soprattutto, una perizia calligrafica simile a quelle usate nelle indagini di polizia. Pressione del tratto, inclinazione: il marchio è di Munch.
Icona dell’angoscia umana, l’Urlo è oggetto di un intervento di conservazione in vista dell’installazione nel nuovo polo espositivo che la capitale norvegese punta ad aprire nel 2022. L’iscrizione era enigmatica quanto nota, eppure, secondo Guleng, «poco indagata. Se fosse stato un teppista, la frase sarebbe più grande». Da qui la scelta di andare a fondo. Al microscopio si è visto che le linee a matita sono sopra la tinta, impresse a tempera asciutta. Con gli infrarossi è stato «catturato» il carbonio e i caratteri sono diventati più leggibili. Il cerchio si è chiuso con perizie calligrafiche, puntate anche su lettere che Munch traccia in modo particolare, come la N e la D. Affiancate a carte autografe, il verdetto: «È lui». Ma perché, e quando, aveva sfregiato il colore? Le ricerche biografiche hanno fissato il contesto, altro elemento finora sfuggente: «Pensiamo sia intervenuto dopo avere ascoltato i giudizi sulla sua salute mentale, quindi nel 1895, o poco dopo». I diari rivelano il turbamento per le critiche alla mostra da Blomqvist e i pareri di Scharffenberg, nel frattempo diventato un’autorità, negli anni si ritrovano più volte.
Esistono quattro versioni dell’Urlo, dal 1893 al 1910. «Era il periodo — annota il pittore — in cui la vita aveva ridotto a brandelli la mia anima». Il pessimismo mette radici tra gli intellettuali, le certezze si sfaldano: con Munch il linguaggio espressionista deflagra. Ma la gestazione del soggetto è lunga. La prima versione a tempera e pastello è del 1893, legata a un’altra embrionale, ne seguono due (1895 e 1910). Quella «compiuta» del 1893 è l’unica con l’iscrizione. In quel periodo l’autore teme mali ereditari: padre e nonno sono depressi, la sorella è bipolare. «Sentirsi definire pazzo e anormale — conclude Guleng — lo ferisce. Forse la frase è ironica ma esprime vulnerabilità. Poter affermare con evidenza scientifica, ora, che il vandalo è lui offre interpretazioni nuove sul rapporto che Munch aveva con la propria arte».