Corriere della Sera - La Lettura
Stavolta facciamo danzare la scena
Roberto Zappalà ha concepito «Panopticon» ispirandosi al carcere perfetto del filosofo britannico Jeremy Bentham: protagonista una struttura all’interno della quale si muovono i singoli artisti. Debutto il 19 marzo a Catania
«L’Etna è come un camino che sfoga sempre. Se la mia danza è lavica, carnale, ai limiti dell’arroganza del corpo, è perché nasce alle pendici del vulcano». In collegamento Zoom da catania, Roberto Zappalà scruta con un sorriso il paesaggio da una finestra di Scenario Pubblico, il suo centro nazionale di produzione della danza. Stavolta l’Etna è particolarmente minaccioso, la sua nube di fumo è stata avvistata nella stratosfera fino alla Cina. Se il magma eruttato è primitivo, l’attività del vulcano si rispecchia anche nel dinamismo di una compagnia che continua a fermentare, nonostante le chiusure e le restrizioni dell’emergenza sanitaria, in progetti che aspirano a una primogenitura rispetto al sistema danza.
È il caso di Panopticon, un nuovo sguardo sull’ambito circoscritto della performance, così come può continuare a esistere oggi, al chiuso e dal vivo, in una dimensione in cui gli spettatori vanno preservati dal contatto, dal respiro condiviso. In bilico tra danza e arti visive, Panopticon è più cose in una: opera installativa, festival, volano per giovani coreografi, rimedio per contenere l’impatto devastante della pandemia sul mondo dell’arte e dello spettacolo dal vivo. Con l’ambizione dichiarata di «ribaltare in qualche modo la percezione della solitudine, del controllo, della protezione dell’individuo».
Concepito da Zappalà con il visual designer Maurizio Leonardi, Panopticon nasce da una riflessione articolata su modelli del passato e futuro: prima di tutto, l’omonimo carcere ideale progettato nel 1791 dal filosofo e giurista Jeremy Bentham e ispirato a Panoptes, il guardiano perfetto dai cento occhi che, secondo la mitologia greca, assicurava un controllo a 360 gradi. Da qui, l’idea di realizzare una struttura scenica a forma di poligono, con un numero variabile di lati a seconda dello spazio che lo ospita, costruito in ferro e tulle nero, un materiale che, a seconda della luce, permette di lasciar penetrare oppure escludere lo sguardo verso il nucleo centrale dove il danzatorecoreografo agisce. Così il contenitore diventa protagonista alla stregua del contenuto (cioè il performer e la sua gestualità) esaltando la dimensione di segregazione/ prigione, distanziamento/ isolamento sociale, voyeurismo.
«Panopticon si è sviluppato in due passaggi distinti. Era inizialmente pensato come festival con ospiti, poi saltato perché impossibile da realizzare . Quindi — racconta Zappalà a “la Lettura” — mi sono concentrato sulla mia compagnia. Comunque, dovrà un giorno diventare un festival, un momento di incontro di memorie con cadenza annuale. È un progetto che sarà sempre in evoluzione: cominciano oggi 4 danzatori-autori, ma progressivamente tutti i mei ballerini, venti nel complesso, vorranno creare all’interno dell’installazione».
Il battesimo di Panopticon/Il teatro igienico è atteso il 19 marzo (fino al 17 aprile) al Museo Civico Castello Ursino di Catania, in collaborazione con l’assessorato alla Cultura del Comune siciliano. Per l’occasione, Zappalà ha affidato le creazioni coreografiche a quattro danzatori della sua compagnia che si cimentano nella scrittura fisica: Filippo Domini, Adriano Popolo Rubbio, Fernando Roldan Ferrer e Joel Walsham. «Alcuni di loro sono stati influenzati dal momento e si sono concentrati su un’idea di costrizione, come il lazzaretto. Io intervengo nella cura registica di alcuni passaggi, per il resto hanno lavorato in autonomia, mi affascina avere un gruppo di lavoro: intravvedo in loro la capacità di ricercare nuovi linguaggi di danza, anche applicati a un ensemble, un’attitudine che si sta perdendo nel contemporaneo. Movimento vero, non performance. È ciò che sposo».
Zappalà cita Charles Baudelaire: «Glorificare l’immagine ancor prima che il significato». Si fa confusione — spiega — «sull’idea di contemporaneità della scena dove l’aspetto concettuale, non intellettuale, prevale su quello coreografico, con grandi sinossi sul concept che resta però scritto, anche se filosoficamente bello, senza realmente trasferirsi alla potenza della coreografia. Lo vedo in molti giovani. Personalmente preferisco costruire un’immagine poetica, che emozioni esteticamente come nei grandi quadri storici e contemporanei. Mi interessa l’autenticità dei corpi in movimento». Ed è in ebollizione il prossimo progetto: «Un lavoro su Cristo, scritto però con la K come in bulgaro, assimilabile alla K di Kafka. Un Kristo folle, lontano dalla visione classica».