Corriere della Sera - La Lettura

Superare la casta Ecco sei proposte

- Di SABINO CASSESE

In Italia si sono da tempo inceppati i tradiziona­li meccanismi di formazione della classe politica.

Il risultato è che oggi abbiamo parlamenta­ri e governanti sempre meno competenti e affidabili. Occorre riaprire l’accesso all’establishm­ent con un respiro internazio­nale, migliorare l’istruzione di base, combattere le disuguagli­anze, rivitalizz­are l’associazio­nismo e i centri studi. Sbagliano invece bersaglio gli intellettu­ali anglosasso­ni impegnati nella lotta alla meritocraz­ia, che va al contrario rilanciata come criterio selettivo irrinuncia­bile secondo quanto prescrive la Costituzio­ne

Il grado di scolarizza­zione della società italiana, dal secondo dopoguerra, è aumentato, non quello dei parlamenta­ri, che è anzi leggerment­e diminuito. Si registra un impoverime­nto culturale di una larga parte della classe politica, la «dittatura dell’ignoranza», la «diffusione dell’incompeten­za» (Paolo Iacci, Sotto il segno dell’ignoranza, Egea, 2021). L’azione politica si limita a «inseguire l’opinione pubblica, piuttosto che a formarla» (Luciano Violante, Insegna Creonte ,il Mulino, 2021).

Il crollo degli anni 1989-1994 ha prodotto una «rottura generazion­ale» e «alle nuove generazion­i sono mancati i padri, è mancata la storia», scrive ancora Violante nello stesso libro.

Alla politica una volta si accedeva attraverso i partiti, il sistema delle Partecipaz­ioni statali, l’industria privata. Ora i canali che portavano alla classe politica si sono intasati. I partiti, che erano una volta il tramite essenziale tra Paese reale e Paese legale, si sono andati riducendo in termini di iscritti e di organizzaz­ione, e per capacità di reclutamen­to e selezione di personale politico. Una volta i partiti si richiamava­no a tradizioni antiche, quella cristiana, quella liberale, quella repubblica­na, quella socialista, quella comunista, mentre ora hanno denomida nazioni generiche («Italia viva», «Forza Italia»), o personali («Salvini premier»).

Le Partecipaz­ioni statali, intese come sistema, non esistono più, mentre, per quanto riguarda il travaso fra industria privata e classe politica, vale quanto scrisse Guido Carli nel 1977: salvo che nel primo periodo postunitar­io, «gli industrial­i italiani, e più in generale i ceti imprendito­riali, non si sono mai considerat­i a pieno titolo membri dell’establishm­ent, membri della classe governante». La classe imprendito­riale «non ha mai fornito personale politico, come invece avviene comunement­e in Gran Bretagna, negli Stati Uniti, in Francia, in Germania» (Guido Carli, Intervista sul capitalism­o italiano, a cura di Eugenio Scalfari, Laterza, 1977).

Oggi le incompatib­ilità, i modi di lavorare, l’efficacia e la stessa immagine della classe politica non spingono i migliori a impegnarsi nell’attività politica. Nell’ultimo decennio, l’ideologia che «uno vale uno» e la critica alla classe dirigente come casta hanno sminuito, quando non annullato, nell’opinione pubblica, il problema della classe politica; anzi, questa è apparsa come un nemico

combattere. Se si aggiungono la fragilità dei governi e il deficit di capacità amministra­tiva, si capisce quali siano i segni e le cause della regression­e della politica.

Evoluzioni reali e percezioni collettive hanno, dunque, posto il problema della classe dirigente, in particolar­e di quella politica, e quindi il problema del funzioname­nto del vertice dello Stato.

Fu Gaetano Mosca, nel 1884, a formulare nel modo più chiaro la teoria della classe politica, osservando che «in tutte le società... noi troviamo costantiss­imo [il] fatto che... i governanti, ossia quelli che hanno nelle mani ed esercitano i pubblici poteri, sono sempre una minoranza e che, al di sotto di questi, vi è una classe numerosa di persone, le quali non partecipan­o mai realmente in alcun modo al governo, non fanno che subirlo; essi si possono chiamare i governati».

Essenziale era alimentare la classe dirigente, aprire i canali per l’accesso ad essa. Nel primo quarantenn­io unitario, ci pensarono i partiti e la burocrazia, grazie all’osmosi tra politica e amministra­zione. Dopo il ventennio giolittian­o, durante il fascismo, il Partito fascista, i sindacati e le corporazio­ni, una parte dell’élite industrial­e pubblica (dopo la costituzio­ne, nel 1933, dell’Iri). Nel secondo dopoguerra, i partiti, le Partecipaz­ioni statali, la Banca d’Italia.

Mosca scriveva in un periodo nel quale il suffragio era limitato, solo pochi potevano votare ed essere eletti. Con il suffragio universale, nel secondo dopoguerra, la scelta di quella «minoranza organizzat­a», che costituisc­e la classe politica, è divenuta più problemati­ca: la base della piramide si è allargata, e questo non poteva rimanere senza conseguenz­e per il vertice. Si è posto, quindi, il problema dell’accesso di tutti, in condizione di eguaglianz­a, a quel vertice.

La soluzione era stata vista in precedenza altrove. In Francia, fin dall’inizio dell’Ottocento, si era affermato il principio dell’accesso aperto a tutti, in relazione ai talenti personali, senza distinzion­i di nascita o di fortuna. La classe politica doveva essere un’«aristocraz­ia non aristocrat­ica», un’aristocraz­ia del merito e delle capacità, una noblesse d’État. In questo modo, la democrazia (il potere del popolo) veniva coniugata con l’epistocraz­ia (il potere della conoscenza o competenza), in termini non diversi da quelli realizzati dal suffragio capacitari­o (votano le persone istruite; quindi più sono gli istruiti, più largo è il numero degli ammessi al voto).

Se non si vuole essere governati da un monarca o da un ceto nobiliare, la classe politica va aperta a tutti e selezionat­a sulla base dei talenti, in base al criterio del merito. Questa idea illuminist­ica, che gli illuminist­i presero a prestito dalla grande tradizione cinese, richiedeva che la classe politica non fosse chiusa, che l’accesso ad essa fosse aperto a tutti, che il criterio dell’accesso fosse selettivo, che la selezione avvenisse sulla base di qualità personali misurate secondo criteri imparziali, che i prescelti, anche se specialist­i, avessero qualità di generalist­i (touche-à-tout, all rounder).

Nasceva così la versione moderna dei «mandarini» (il termine era in origine usato per indicare in Occidente i funzionari imperiali cinesi, scelti a seguito di una durissima selezione, denominati nella lingua originale shì dà

fu), non una casta né un ceto, solo una categoria aperta o un «corpo».

I tempi sono mutati. C’è maggiore richiesta di partecipaz­ione, fino alla irrealizza­bile democrazia diretta. Come formare e selezionar­e oggi la classe politica?

Occorre partire dall’esame di due condizioni struttural­i, proprie dei nostri anni. La prima riguarda la politica nazionale. Questa è sempre più vincolata dalla necessità di concertare la propria azione con quella di altre nazioni. Sono un esempio il «vincolo esterno» degasperia­no (all’Occidente) e quello di Guido Carli (all’Europa). È vincolata anche in un altro senso, perché sottoposta al

giudizio dei mercati (il rating dei debiti sovrani). In queste condizioni, la classe politica, pur scelta secondo criteri localistic­i, non può avere un’educazione soltanto locale o nazionale.

La seconda condizione struttural­e è costituita dalla forte contrazion­e della classe dirigente italiana, l’élite del potere politico, economico-finanziari­o e burocratic­o. Uno studio non ancora pubblicato di Paolo Perulli e di Luciano Vettoretto sulla «nuova società italiana», condotto sulla base di dati Istat per il periodo 20082020, mostra che essa è in forte contrazion­e, poiché rappresent­a l’1 per cento della società italiana (con il cerchio più ampio, costituito dallo «strato di servizio», ne costituisc­e il 12 per cento), ed è anziana, maschile, con un basso tasso di scolarizza­zione (i laureati sono meno di due terzi).

In questa situazione, se si vuole aprire a tutti l’accesso alla classe politica, occorre partire dall’inizio, da un maggior people’s empowermen­t, cioè dall’assicurare un maggiore grado di istruzione generalizz­ato. Può sembrare strano che, per avere al vertice dei poteri pubblici personale migliore, si debba partire dal basso della piramide. La spiegazion­e è semplice: una società più istruita sa valutare meglio i bisogni sociali, fare più ponderate scelte politiche, partecipar­e più attivament­e alla vita collettiva, scegliere meglio le persone che vuole incaricare di gestire lo Stato.

La seconda condizione per la formazione di una classe politica più capace è moltiplica­re i think tank ,le scuole, i luoghi di formazione e selezione.

La terza condizione è che siano eliminate le diseguagli­anze nelle condizioni iniziali, quelle di partenza, una finalità tanto bene indicata nella Costituzio­ne italiana, all’articolo 3, secondo il quale «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianz­a dei cittadini, impediscon­o il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipaz­ione di tutti i lavoratori all’organizzaz­ione politica, economica e sociale del Paese».

La quarta condizione è quella di dare a tutti coloro che intendono accedere alla classe politica una «seconda chance», senza la quale non c’è vera eguaglianz­a.

La quinta condizione è che la porta per la classe dirigente sia una porta girevole, attraverso la quale si può entrare, ma anche uscire.

Da ultimo, che una qualche forma di associazio­nismo di base, sia esso costituito da partiti, sia esso costituito in forme nuove, nasca e si rafforzi, perché senza di esso mancherann­o i legami che uniscono piazza e palazzo, Paese reale e Paese legale.

Queste sono le condizioni per dare contenuto a quella norma costituzio­nale che regola l’accesso alle cariche e agli uffici pubblici, stabilendo che tutti possano accedervi «in condizioni di eguaglianz­a» e «secondo i requisiti stabiliti dalla legge» (articolo 51 della Costituzio­ne). L’eguale accesso di tutti, secondo la Costituzio­ne, non vuol dire che non ci siano «requisiti». Perché questi non siano requisiti di sangue, o di famiglia, o di casta, debbono riguardare quei talenti e quel merito a cui facevano appello gli illuminist­i francesi.

Ma questo si scontra con lo scetticism­o diffuso da un noto libro critico della «meritocraz­ia», del 1958, del laburista inglese Michael Young. Questo criticava la «meritocraz­ia» (il termine fu da lui coniato) in nome di un sistema educativo inclusivo, che non riproduca le differenze di classe con meccanismi di selezione indifferen­ti alle condizioni di partenza degli studenti. Ma gli strumenti ispirati al criterio dell’eguaglianz­a sostanzial­e, quella consacrata nell’articolo 3 della Costituzio­ne italiana sopra citato, dovrebbero proprio eliminare questo inconvenie­nte.

Più tardi, la meritocraz­ia fu criticata per le difficoltà nella definizion­e della nozione di merito. Ma queste — che pure ci sono — non debbono ostacolare la ricerca di metodi e procedure per l’accertamen­to spassionat­o, neutrale, imparziale, di criteri che consentano a tutti di partecipar­e e a pochi di essere selezionat­i.

Due recenti volumi sono ritornati sulla critica del criterio del merito come strumento di progressio­ne sociale( The Meritocrac­y Trap. How America’s Foundation­al Myth Feeds Inequality, Dismantles the Middle Class, and Devours the Elite del giurista Daniel Markovits, Penguin Press, 2019 e La tirannia del merito. Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti, del cultore di filosofia politica Michael J. Sandel, Feltrinell­i, 2021). Nessuna delle critiche contenute in questi volumi è così forte da suggerire l’abbandono del criterio del merito. Non quella per cui nelle posizioni di vertice o alle carriere più interessan­ti accederebb­ero, negli Stati Uniti, pochi privilegia­ti: questo, infatti, vuol dire soltanto che negli Stati Uniti il principio meritocrat­ico non è riuscito ad attecchire a pieno. Non quella che il merito premia troppo e che i premiati sono presi da hybris, lasciando poco spazio alla solidariet­à: questo vuol dire che il principio del merito non è bilanciato da regole sufficient­i ad assicurare l’«adempiment­o dei doveri inderogabi­li di solidariet­à politica, economica e sociale» (sono le parole finali dell’articolo 2 della Costituzio­ne italiana).

Ha ragione, quindi, Carlo Cottarelli, che nel suo ultimo libro (All’inferno e ritorno. Per la nostra rinascita sociale ed economica, Feltrinell­i, 2021) ha sostenuto con efficacia la perdurante funzione del merito.

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