Corriere della Sera - La Lettura
La bandiera (inzuppata) dell’Italia
Cinema L’attore — e regista! — nacque un secolo fa. Gli anni d’apprendistato lo resero grande
Nella nidiata di giganti venuti al mondo nella prima parte degli anni Venti, Nino Manfredi, nato il 22 marzo 1921, era un anno più giovane di Alberto Sordi, uno più vecchio di Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi, e tre di Marcello Mastroianni. Ogni aquila ha la sua cima, diceva il vecchio proverbio, e anche se le carriere e le filmografie sono intrecciate da innumerevoli combinazioni e collaborazioni, ognuna di queste personalità ha incarnato con il suo talento facce inconfondibili di quel poliedro inesauribile e sconcertante che è la vita umana, soggetta alle imprevedibili interazioni del carattere e del destino.
La singolarità di Manfredi è evidente da un capo all’altro della sua carriera, eppure è difficile da definire con esattezza. Sono costretto a tentare una sintesi, sicuramente inadeguata: mi sembra che Manfredi sia stato capace di svincolarsi dall’opposizione meccanica del comico e del tragico, perché ha intuito che la nostra vita è ibrida, e nessuna sua espressione è veritiera se non si porta con sé il suo contrario.
Era nato a Castro dei Volsci, in provincia di Frosinone, uno di quei borghi italiani così antichi da sembrare fatti di tempo più che di pietre e di calce. Le impressioni dell’infanzia si possono ritrovare, ancora vivide nella memoria, come impregnate della luce di una mattina d’estate, nella prima parte di Per grazia ricevuta, il film del 1971 di cui Manfredi è protagonista e regista, che gli valse il premio per l’opera prima a Cannes. Mi auguro che gli storici del cinema continuino a tenere nel debito conto questo capolavoro. Abbastanza paradossalmente sono poche, nella letteratura e nel cinema, le narrazioni efficaci dell’imprinting cattolico sul carattere italiano, e Per
grazia ricevuta tocca livelli di profondità davvero notevoli, come solo può accadere quando la sociologia e l’antropologia e la storia dei costumi cedono il passo alla visione individuale, così priva di tesi da dimostrare da sorprendere anche sé stessa.
Ora, è quasi inutile ricordare che Manfredi, dal paese, si portò dietro quella stupenda parlata ciociara che esplode in tutta la sua comicità degna di un Gadda negli sketch televisivi degli anni Cinquanta del «barista di Ceccano» (che si chiamava, genialmente, Nino Manfredini). Ma Manfredi è cresciuto a Roma. Come Francesco Totti tanti anni dopo, è stato un ragazzo di Porta Metronia: troppo gracile per giocare a pallone a causa di una grave
tubercolosi, recitò le sue prime parti nel teatrino della parrocchia di via Gallia, dove anche le parti femminili erano assegnate ai maschi. Ma poi ci fu l’Accademia, e l’insegnamento di Orazio Costa, che dall’immediato dopoguerra aveva cominciato a sperimentare il suo metodo mimico sui primi allievi. Come capita a tutti i grandi maestri, noi ci immaginiamo facilmente Costa come un vecchio saggio, ma a quei tempi tra l’insegnante e gli apprendisti non c’era una grande differenza di età, Costa era del 1911.
In certe ospitate televisive, ormai anziano, Manfredi mostrava degli esercizi nel frattempo diventati famosi. Se ne trova facilmente uno in rete in cui l’aspirante attore doveva fare una bandiera, utilizzando solo il suo corpo. Via via, Costa decretava la forza del vento, da un alito di brezza a una tempesta, per arrivare alla cosa verosimilmente più difficile, che è una bandiera inzuppata di pioggia. Imparata a fare la bandiera e tante altre cose, prese il via la carriera, con tutti gli aneddoti picareschi degli inizi, che a ripeterli si deformano e ingigantiscono come i pesci nei racconti dei pescatori.
Ma il bello di scrivere un elogio di un grande come Manfredi racchiuso in una pagina di giornale, con le sue misure invalicabili, è che si è costretti a scegliere, commettendo terribili ingiustizie, come in un gioco in cui sei costretto a usare una singola scheggia per dare conto di tutto l’insieme. Ebbene, fatta questa doverosa premessa, io punto le mie carte, per la carriera di Manfredi, sul rapporto con Luigi Magni. Come si sa, Manfredi è presente
— come eroe positivo — in tutta la trilogia: in Nell’anno del Signore (1969) nelle vesti di Cornacchia/Pasquino, in
In nome del Papa Re (1977) in quelle di monsignor Colombo da Priverno e in
In nome del popolo sovrano (1990) in quelle di Angelo Brunetti, ovvero Ciceruacchio.
Tre grandi interpretazioni, ma a mio parere il vertice sta in quella di monsignor Colombo. La scena del processo, con il discorso in cui il prelato tenta di salvare dalla ghigliottina i due carbonari Monti e Tognetti, è indimenticabile. La si trova anche su YouTube separata da tutto il resto, e mi auguro che tra le oltre 150 mila visualizzazioni una parte cospicua provenga da giovani che studiano il mestiere dell’attore, perché c’è più sapienza, più umanità, più sovrano controllo dei propri mezzi in questi 7 minuti che in mille libri di teorie messi insieme. Basterebbe solo il gioco con le due paia di occhiali a farci percepire nettamente cos’è un grande attore. Perché rendere visibili concetti astratti è un’arte che si basa nello stesso tempo sui dettagli e sulla coscienza dell’insieme. Natalia Ginzburg avrebbe detto che qui l’attore mostra che cos’è la «vera giustizia» ma la giustizia, l’umanità, la compassione sono parole che possono stare rinchiuse in qualunque sceneggiatura.
Come nell’esercizio della bandiera di Orazio Costa, sono il corpo dell’attore, le inflessioni della sua voce, il gioco degli sguardi che rendono concreto l’astratto come se fosse un pezzo di pane o un catino pieno d’acqua. Credo che siano capaci di arrivare a queste vette solo gli artisti che non pensano mai di avercela fatta, che non smettono mai di imparare.