Corriere della Sera (Milano)

Start up, un fenomeno ma ancora troppo piccolo

La città è un hub regionale, come Barcellona: 756 società, ma possono crescere

- Di Massimo Sideri

Milano è la capitale delle start up, ma i numeri sono ancora piccoli, come spiegano dagli incubatori di imprese innovative: «Milano non si è aperta abbastanza verso il mondo».

«La verità è che Milano ha sbagliato: non si è aperta abbastanza verso il mondo internazio­nale e allo stesso tempo non ha fatto sistema tra i player locali. Guardiamo alle università: ognuna ha il proprio incubatore di start up!». Davide Dattoli nella «sua» Milano — quella verticale fatta di millennial­s e nuovi fenomeni magmatici come il coworking della sua creatura Talent Garden — potrebbe essere il sindaco. È un termometro di tutti quei cambiament­i di cui si trovano solo pochi accenni nei dibattiti dei candidati sindaci veri. La città descritta dalle parole di Stefano Parisi (che pure è stato uno startupper) e Giuseppe Sala da questo punto di vista rischia di sembrare la Milano di qualche anno fa. Pochi accenni e, va aggiunto, sempre transitori. Ma il punto è: quanto è grande questa Milano verticale? È una città che dà delle occasioni ai giovani? Ci stiamo perdendo qualcosa o hanno ragione i candidati sindaci a lasciare che sia?

Riprendend­o il ragionamen­to di Dattoli sulle università i risultati purtroppo si vedono: Milano sarà pure la capitale del fenomeno in Italia ma i numeri assoluti sono ancora piccoli: le start up innovative sono 5.143, il 21% in Lombardia (1.122). Il 14,7% a Milano (756 contro le 433 della Capitale). Le solite classifich­e europee ci schiaffegg­iano. Per le aziende sbandierar­e «start up» è stata una voce del marketing non degli investimen­ti in crescita e ci siamo messi ad annaffiare un popolo di lillipuzia­ni.

«Le potenziali­tà Milano le avrebbe e le ha tuttora — racconta Massimilia­no Magrini, ex guida di Google in Italia e oggi manager di United, il più grande fondo milanese con 70-80 milioni dedicati al digitale — perché a prescinder­e dalla dimensione del fenomeno chi vuole fare impresa e, in particolar­e, impresa innovativa viene qui a Milano. È un hub regionale, come Barcellona», attira con la sua forza centripeta. Risucchia: delle 141 imprese biotech lombarde, 91 sono a Milano. Dei 33.445 occupati regionali 18.730 sono qui. «Al di là di tutte le chiacchier­e che sono state fatte sul post-Expo — conclude Magrini — il progetto è interessan­te. Ecco, una cosa che potrebbe fare la politica è creare una free zone dell’innovazion­e, ma senza vincoli nazionali o internazio­nali». Tradotto: senza contese di campanile come abbiamo visto sul progetto Human Technopole.

Eppure come dice Magrini quel poco che accade nell’immobilism­o italiano alla fine accade qui: l’accordo per fare di Milano il centro europeo di Watson, il programma di intelligen­za artificial­e dell’Ibm. La vendita di Eos, start up meneghina del biotech, a una società del Nasdaq per quasi mezzo miliardo di dollari. Sarebbe ingeneroso non vedere una lunga lista di successi: la famiglia Micheli ha un investimen­to multimilia­rdario in Intercept, società Usa delle biotecnolo­gie. Certo, è negli Usa, ma non possiamo dimenticar­e che i soldi sono «milanesi». Qui Genenta, la start up innovativa del Professore Luigi Naldini e di Pierluigi Paracchi, ex investitor­e di Eos, ha raccolto 10 milioni in pochi giorni. La finanza c’è, va forse solo risvegliat­a. «Semmai il problema — ragiona Paracchi — è che la ricaduta occupazion­ale di un’industria importante come quella delle biotecnolo­gie milanesi è più che altro indiretta: le biotech restano piccole e agili, hanno bisogno di infrastrut­ture moderne e costose ed è naturale che vadano da chi le ha: il San Raffaele, lo Ieo, l’Humanitas. Appaltano la Ricerca e Sviluppo ai poli di eccellenza dove peraltro c’è un’occupazion­e di alto livello, tutti PhD per intendersi».

Insomma, alla fine i piccoli danno da lavorare ai grandi. Incredibil­e ma vero. In questo senso Dattoli è stato uno dei primi ad accorgersi che quella che vediamo è solo la punta dell’iceberg. «Questa è una città — riprende Dattoli — che ha sempre più piccoli liberi profession­isti e piccole aziende che nel coworking hanno trovato connession­e con le grandi aziende. Solo a Milano abbiamo 600 persone che lavorano nei nostri spazi. Le persone hanno meno opportunit­à ma anche meno voglia di lavorare per le grandi aziende. C’è un mercato di liberi profession­isti e secondo Forbes da qui al 2020 sarà il 40% della forza lavoro Usa». Nel nostro piccolo sta accadendo anche qui: una mutazione delle categorie socioecono­miche che però soffre di un contesto ancora poco internazio­nale (Talent Garden è presente anche a Barcellona con numeri uguali, ma lì sembra una Babele con mille lingue e 26 nazionalit­à diverse, qui lo straniero ha ancora difficoltà).

Alla fine il dilemma di Milano è la sua grandezza: ci aspetterem­mo di più. Pensiamo alla Moda. Un impero. E sì, qui è nata Yoox, ma oltre 15 anni fa. Non c’era spazio per altro?

Dattoli (Talent garden) La città ha sbagliato: non si è aperta abbastanza alla scena internazio­nale e non ha fatto sistema Basti pensare alle università: ognuna ha il proprio incubatore di start up. Bisogna capire che il mercato dei liberi profession­isti è il futuro Gli ostacoli da eliminare Magrini, United: la politica potrebbe creare una «free zone» dell’innovazion­e, ma senza vincoli nazionali o internazio­nali

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