I ragazzi dentro a San Siro cancellano la malagioventù
Sono qui con i piedi sull’erba del prato di San Siro. In braccio ho una chitarra. Davanti a me un microfono. Attorno 80 mila persone (tantissimi i giovani) urlano e sventolano una sciarpa bianca e gialla, la stessa che ho legato alla tracolla della chitarra. Riesco a capire cosa prova un calciatore di fronte ad un pubblico simile, quando segna e quando sbaglia. Riesco a capire da qui anche il perché di alcuni suoi eccessi. Riesco a capire cosa prova un arbitro e che gran passione deve avere per sopportare la pressione di tutto questo. Ovviamente comincio a capire anche cosa significhi per un musicista esibirsi in uno stadio del genere, ma non riesco ovviamente a comprendere cosa proverà il Papa che tra qualche ora entrerà in questo boato. Devo cantare due canzoni e l’emozione potrebbe essere sconfinata, ma non penso alla mia esibizione perché lo sguardo va a tutti questi ragazzi multicromatici, gioiosi, assolutamente contenti di essere lì, disciplinati, con l’atteggiamento tutt’altro che superficiale e di circostanza. E vengo travolto da qualcosa di superiore, ma allo stesso tempo sorretto da una forza che cancella molte ombre dalla mia testa. Ombre fatte di notizie di cronaca dove i ragazzi sembrano essere una promessa della criminalità, un abbonamento allo spaesamento, un abbandono al lato oscuro della forza e quindi respiro con il cuore leggero e con un’iniezione di fiducia inaspettata che mi fa dimenticare persino che sto cantando «Yanez» e «Pulenta e galena fregia» davanti a uno stadio pieno come il derby.