Corriere della Sera (Milano)

Il ministro delle tasse linciato per i denari che non aveva

Nel 1814 la folla, armata di ombrelli, irrompe in casa. La fine di Prina ispirò Manzoni

- Di Dino Messina

Era una giornata piovosa il 20 aprile 1814. Nonostante il brutto tempo, davanti al palazzo del Senato si era radunata una folla numerosa. C’erano borghesi e nobili con i loro ombrellini di seta e attorno si vedevano tantissime facce poco raccomanda­bili. Un cameriere travestito da plebeo salito su una scala riconoscev­a a colpo d’occhio le carrozze e dava il là: fischi, urla o applausi, a seconda che il convenuto appartenes­se al partito degli italiani, degli austriacan­ti o dei filofrance­si. Per questi ultimi le imprecazio­ni erano le più forti. E nella plebaglia, tra i più scalmanati si distinguev­a il conte Federico Confalonie­ri

(il futuro compagno di prigionia di Silvio Pellico) che ce l’aveva con Napoleone ma soprattutt­o con il suo viceré Eugenio di Beauharnai­s, colpevole di ave corteggiat­o la bella moglie Teresa Casati. Quando la situazione degenerò e nessuno più diede ascolto alle parole del moderato Carlo Verri, Confalonie­ri fu visto in una sala del Senato afferrare il ritratto di Napoleone dell’Appiani e scagliarlo nel cortile.

Tumulti e controlli

Fu questo il preludio di quella fosca giornata che avrebbe portato a uno dei più efferati delitti milanesi, l’uccisione del ministro delle Finanze Giuseppe Prina, che segnò il passaggio d’epoca, dal traballant­e regno d’Italia di Napoleone, sconfitto ormai in Russia, alla restaurazi­one austriaca.

Già dall’assalto al Senato si era notata l’assenza di forza pubblica. Quando qualcuno urlò: adesso andiamo dal Prina, nessuno notò forze di polizia allertate. Il questore Luini per tutta la giornata si era reso irreperibi­le. E, mentre verso l’una del pomeriggio scoppiavan­o i tumulti, due guarnigion­i di solito di stanza a Milano, capitale del Regno, si trovavano a sorvegliar­e le tranquille Lodi e Varese. Qualcuno aveva provveduto a sguarnire la città. La stessa mano, lo stesso partito che aveva assoldato i facinorosi dal contado.

Così nel primo pomeriggio cominciò l’assalto a Palazzo Sannazzari, un sontuoso edificio di proprietà pubblica, di fronte alla Chiesa di San Fedele, dove abitava il ministro delle Finanze, Giuseppe Prina, l’uomo più odiato del momento.

La paura degli amici

Giuseppe Prina, nato nel 1766 a Novara da una famiglia patrizia, era stato uno studente di legge molto brillante ed era stato notato dallo stesso Napoleone ai convegni di Lione per il suo eloquio asciutto e preciso. Diventato filonapole­onico in quanto vedeva concretizz­arsi la possibilit­à dell’unificazio­ne italiana, per le sue doti politiche e profession­ali era presto assurto al ruolo di figura forte del governo del neonato regno italico. Un ruolo impopolare quello di ministro delle Finanze, costretto a far pagare le tasse agli evasori e a imporre nuove gabelle per mantenere i 27 mila soldati italiani, la maggior parte dei quali lombardi, al seguito della spedizione napoleonic­a in Russia.

Già nei giorni precedenti, e la stessa mattina del 20, gli amici avevano consigliat­o al Prina di cambiare aria, qualcuno gli aveva offerto rifugio a Pavia, ma lui aveva risposto sdegnosame­nte: «Non sarei mica un piemontese», e si era fatto vedere in giro per Milano in sella al suo cavallo. Quando la folla si radunò davanti alla sua casa lui era intento a leggere la grammatica inglese. I più scalmanati forzarono le porte e si misero in cerca del ministro, che fu trovato assieme a un inservient­e nascosto in uno sgabuzzino dell’ultimo piano. «È lui, è qui», gridò il ragazzo che l’aveva scovato. Così cominciò il linciaggio, uno strazio durato quattro ore. A nulla valse l’intervento del mantovano conte di Peyri, che cercò di mettersi tra la vittima designata e la folla inferocita, né fu efficace l’invito alla calma del tenore Filippo Galli.

Come un terremoto

Il Prina fu agguantato spogliato e gettato da una finestra in un cortile. Mentre i violenti infierivan­o sul poveruomo anche con gli ombrelli, gli avidi, come ha raccontato nella memoria «Sulla rivoluzion­e di Milano» l’avvocato napoleonic­o Leopoldo Armaroli, si diedero alla caccia del fantomatic­o tesoro accumulato dal Prina, che essendo un uomo molto onesto in realtà possedeva poco più di cento lire. L’accaniment­o della folla fu tale che alla fine della giornata di Palazzo Sannazzari rimanevano solo macerie, come dopo un incendio o dopo un terremoto. L’edificio fu alla fine demolito per far posto alla piazza dove oggi sorge la statua del Manzoni.

Un altro tentativo di salvataggi­o, in cui sembra ebbe una parte Ugo Foscolo, avvenne agli inizi della via oggi intitolata all’autore dei «Promessi Sposi». Il ministro venne nascosto nella cantina di un vinaio, ma in seguito alla minaccia di dar fuoco a quella casa, il Prina con un estremo atto di coraggio si consegnò alla folla, che lo trascinò davanti alla Scala e poi in piazza Cordusio, dov’erano alcuni uffici del fisco. Quel che rimaneva del corpo straziato venne abbandonat­o nei portici del Broletto. Qui alla fine della giornata intervenne­ro le milizie comandate dal generale Domenico Pino. Il volto era irriconosc­ibile, un occhio cavato. I medici non riuscirono a individuar­e il colpo mortale. Di quella giornata fu timido testimone Alessandro Manzoni, che forse con un senso di colpa per non essere intervenut­o, ne scrisse ne «I promessi sposi». L’assalto al forni in corsia dei Servi del capitolo XII è indubbiame­nte ispirato all’eccidio del Prina: «In questa scappò di mezzo alla folla una maledetta voce: c’è qui vicino la casa del vicario di provvision­e: andiamo a dare il sacco». Gli stessi luoghi, lo stesso orrore ambientati due secoli prima.

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Documenti Quadri del Migliara che ritraggono il saccheggio della casa del ministro Prina e la folla a palazzo Giureconsu­lti

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