Torna in scena al Parenti l’«Opera Panica» di Alejandro Jodorowsky
«Amo molto Opera panica perché racchiude una mia idea di teatro come arte totale e trasgressione»
«La felicità è la mia ossessione», confessa Alejandro Jodorowsky. «La felicità ha a che fare non solo con l’individuo ma con il suo rapporto con il sociale. Per raggiungerla c’è una sola via, uscire da se stessi per essere se stessi». Un impegno che il poliedrico artista cileno, scrittore, poeta, drammaturgo, cineasta, attore, fumettista, studioso di tarocchi,
ha perseguito con surreale ostinazione nella sua lunga e multiforme vita. Facendone anche il cuore di un testo, «Opera panica - Cabaret tragico», in scena al Parenti con la regia di Fabio Cherstich.
Un testo che ha segnato il suo ritorno sulle scene dopo tanti anni. «Amo molto “Opera panica” perché racchiude una mia idea di teatro come arte totale, capace di coinvolgere generi diversi e aprire a una certa visionarietà. Quando Fabio Cherstich mi ha chiesto, a nome del Franco Parenti e di Andrée Ruth Shammah, i diritti, mi sono subito fidato della sua idea registica che consiste nell’utilizzare l’assurdo per pervenire alla felicità. Spero di venire a vedere lo spettacolo».
L’assurdo era iscritto in quel Movimento Panico ispirato al dio Pan, a cui lei, nel ‘62, dette vita con Fernando Arrabal e Roland Topor.
«Ci presero per pazzi, e avevano ragione. Il Panico è una forma particolare di follia, nasce come antidoto al razionalismo esasperato di una certa drammaturgia. Ci annoiava tutto ciò che faceva parte del naturalismo, così abbiamo deciso di seminare il Panico, di sconvolgere l’assurdo con l’assurdo, di prendere in giro la seriosità della cultura».
Happening scandalosi, anarchici, geniali. Che fine ha fatto quella filosofia euforica?
«Non mi pare ci siano eredi, dato che la trasgressione nell’arte, ha scelto altre vie». Pensa alla realtà virtuale? «Paradossalmente sembra l’unica realtà possibile, capace di offrirti momenti di libertà. Ma non è così, perché Internet è governato dai potentati che ti lasciano credere di essere libero. Per esserlo davvero è necessario un po’ di panico».
E per praticare il Panico serve il teatro, il rito, l’immaginazione, persino l’arte dei tarocchi.
«Su questo versante tera- peutico, ritengo leggendaria l’esperienza di “Cabaret Mystique”, lo spazio di Parigi dove ho cercato di teorizzare un modo di curare attraverso l’arte trasformata in mezzo terapeutico, con il ricorso alla psicomagia, ai suoi rituali capaci di parlare al nostro inconscio. Dall’atto teatrale a quello onirico, a quello magico. E infine a quello psicomagico, per dare senso al non senso, dare coscienza all’inconscio». Come ci si sente a 88 anni? «Diventare vecchi è una grazia. La vecchiaia alimenta la creatività e ti sprona a nuovi progetti, anche se hai quasi 90 anni. A lungo ho vissuto come fossi immortale. Ora grazie alla vecchiaia so che mi avvicino alla morte, accetto di scomparire. E vivo una specie di felicità dove tutto è bello, tutto mi dice qualcosa. Mi sveglio e dico: che meraviglia, un giorno di più! La vecchiaia spazza via i dubbi. Tra il fare il non fare, faccio sempre. È il mio consiglio. Se fai e sbagli resta l’esperienza, se non fai resta solo la frustrazione».