Corriere della Sera (Milano)

Rifugiati Football Club

Corelli Boys, la squadra dei richiedent­i asilo, debutta in un campionato ufficiale La prima partita è finita 3-3

- Stefano Landi

Un pareggio che vale come una Coppa del Mondo. Grandinano gol e emozioni per il debutto in campionato, domenica scorsa, dei Corelli Boys, la squadra dei ragazzi richiedent­i asilo del Centro di via Corelli. Un 3-3 (finendo in 10 per un espulsione) alla prima giornata che corona il loro primo sogno: iscriversi a un campionato Uisp (Unione italiana sport per tutti). Come quello che giocano altri ragazzi come loro: quelli italiani. E siccome da queste parti non esistono sponsor, ce l’hanno fatta grazie al crowdfundi­ng. La prima campagna di finanziame­nto pubblico ha fruttato 5.600 euro per pagare parastinch­i, palloni, maglie. Il salvadanai­o verrà riaperto dato che servono altri soldi per coprire i costi del campo di casa e delle trasferte. Che per ora hanno un fascino (oltre che un mezzo di trasporto) antico: ritrovo alla fermata del 38 e si va in autobus.

Samba Soo ha sempre giocato a calcio. Fino a due anni fa in Senegal era considerat­o un grande talento. In Italia è arrivato da richiedent­e asilo. Oggi è il capitano di una squadra senza bandiera, che condivide lo stesso passato. Maglia nera, calzettoni rossi. Età media 20 anni. Una ventina di ragazzi: arrivano da Camerun, Nigeria, Siria e Libia: «Gli allenament­i restano aperti. Abbiamo un gruppo su WhatsApp per darci appuntamen­to ma anche per commentare le partite. Il passaparol­a attira molti ragazzi, anche se poi qui devono garantire impegno», spiega Samba. Chi sgarra finisce in tribuna a tifare. Samba oltre che leader della squadra fa anche da traduttore. Qui si parlano una decina di lingue, in pochi sanno l’italiano. Gli allenament­i, due volte a settimana, sul prato del parco Forlanini. Sgambata e parte tattica. «Hanno fisico, talento. Giochiamo un 4-3-3 offensivo ma visto il risultato dell’esordio c’è da lavorare tanto sulla difesa», spiega l’allenatore (volontario) Luis Patino, peruviano. Come è finito su questa panchina? «Due anni fa ho visto giocare alcuni di questi ragazzi. Gli ho detto: “Se volete fare qualcosa di serio chiamatemi”. Ora, nelle amichevoli, i presidenti delle altre squadre vorrebbero portarcene via tanti. Però poi ci sono problemi logistici: altrove si allenano di sera. Al Centro di Corelli i cancelli chiudono a mezzanotte».

All’allenament­o i ragazzi arrivano sparpaglia­ti dal Centro. Una minima flessibili­tà d’orario è concessa solo a chi lavora: buttafuori, mediatore culturale, panettiere. Per tutti gli altri invece il campo da calcio è l’unico contatto con la vita vera. C’è chi va a riempire le borracce nelle fontanelle, i nuovi entrati che cercano di fare bella figura nella partitella in cui sfidano i titolari. Per ora gli aiuti sono arrivati dal basso. Per questo quando si torna a parlare di sogni, in tanti vorrebbero poter incontrare i campioni di Milan e Inter: «Vorrei stringere la mano a Franck Kessie, perché ha la mia età e come me arriva dalla Costa d’Avorio. E lui è uno che ce l’ha fatta», dice Moussa. Dietro al progetto dei Corelli Boys c’è soprattutt­o un’ambiziosa sfida di emancipazi­one sociale. Pochi metri dietro la porta da calcio scorre il traffico verso l’aeroporto di Linate. Forse un giorno ci sarà uno spogliatoi­o dove fare la doccia Ma il calcio è una pietra che rotola. Per ora qui, basta davvero così.

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(foto Stefano Porta/LaPresse) Dall’Africa A fianco, i calciatori del Corelli Boys prima di una partita. Sotto, una fase di gioco
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che opera all’interno del Cas

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