UN LAMPO DI GIUSTIZIA NEL TERRORE
La condanna all’ergastolo, martedì, da parte della prima Corte d’Assise di Milano, del torturatore di migranti in Libia è straordinariamente importante. Innanzitutto perché indica che nella trama sfuggente e viscida del traffico di esseri umani, dove sembra impensabile tirare un filo certo e arrivare a un responsabile; in tutto questo caos, ecco, è possibile far giustizia, addirittura in tempi brevi, con un impianto accusatorio così solido da garantire il massimo della pena. Non era scontato, ed è un precedente importante. Il punto di partenza è stato quasi casuale: Osman Matammud, 22 anni, somalo, a gennaio è stato riconosciuto (e quasi linciato) in un centro per richiedenti asilo a Milano da altri ospiti che erano passati per il suo lager libico. Da qui, il pubblico ministero Marcello Tatangelo è riuscito a ottenere che il processo si facesse in Italia; che i rifugiati, da lui atrocemente seviziati, accettassero di testimoniare; che si riuscisse a documentare l’orrore di uno dei molti campi di concentramento di migranti in Libia. Esistono ormai diversi procedimenti in Italia che cercano di rintracciare i trafficanti di esseri umani, responsabili di migliaia di vittime tra il deserto e il mare. Il punto debole è che, però, spesso si basano su intercettazioni, tra apparecchi che passano di mano in mano e dialetti indecifrabili. Coinvolgere i rifugiati nel riconoscimento dei loro aguzzini (che spesso, come Osman, dopo aver guadagnato sulle traversate, si trasferiscono a loro volta in Europa) apre a nuove possibilità di giustizia.