I forzati del trasferimento in Calabria «Una vittoria, ora revocate quel piano»
Decisivo l’intervento del governo. I lavoratori: spostamenti sospesi, non revocati
Dopo il presidio contro i 64 trasferimenti «forzati» in Calabria annunciati da Almaviva, il colosso dei call center fa dietrofront e sospende il piano. Decisivo l’intervento del ministro Calenda. I lavoratori: ora la revoca.
Fermi tutti. Niente valigie per la Calabria, niente treno per Rende. Il giorno dopo la rivolta dei lavoratori di via dei Missaglia, sulla vicenda Almaviva interviene il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda e l’azienda fa un passo indietro: i trasferimenti forzati sono «sospesi».
Venerdì mattina, all’affollatissimo presidio davanti alla sede milanese del colosso dei call center, i lavoratori hanno lanciato la loro parola d’ordine: «Questi sono licenziamenti mascherati». Meno di 24 ore più tardi il ministero dello Sviluppo economico utilizza le stesse parole. Calenda chiede all’azienda di «sospendere il trasferimento in Calabria di 64 lavoratori che si configurerebbe come un licenziamento seppure mascherato» e convoca con urgenza un incontro «per ricercare una soluzione diversa». Da parte sua, sempre ieri in mattinata, Almaviva «consapevole della complessità della situazione», ha accolto l’appello del governo in attesa dell’incontro «per la necessaria definizione di un’intesa che garantisca l’indispensabile equilibrio del sito produttivo». E il tavolo ministeriale dovrebbe essere convocato già nei prossimi giorni. Tutto
molto veloce, insomma. Gli stessi lavoratori e i sindacalisti protagonisti della protesta di venerdì confessano che non si aspettavano una svolta in tempi così rapidi. «Non è una vittoria, perché l’azienda non ha revocato ma soltanto sospeso i nostri trasferimenti — commenta Ana Romero, destinataria di una delle 64 lettere — comunque è un passo importante. Andremo al ministero, ma non dimentichiamo che 1.600 nostri colleghi di Roma sono stati licenziati nonostante l’intervento del ministro e so che andremo avanti fino a quando non saremo stati tutti ricollocati qui a Milano. Intanto, però, siamo costretti a restare isolati, in ferie forzate, ancora non maturate e comunicate con un sms».
All’origine della soluzione di forza dell’azienda c’è la conclusione di una commessa importante: la gestione del call center di Eni, che occupava 110 dei circa 500 dipendenti di via dei Missaglia. Per compensare Almaviva ha proposto un accordo che prevedeva cassa integrazione a zero ore, straordinari non pagati, controllo a distanza individuale e più rigidità nella gestione dei turni. Ma soltanto un sindacato, la Fistel-Cisl, lo ha sottoscritto. Gli altri due (Slc Cgil e UilCom) lo hanno respinto e lo stesso hanno fatto il 75 per cento dei lavoratori che hanno detto no al referendum. La controreplica dell’azienda è arrivata per posta: 64 dei 110 hanno ricevuto una raccomandata con l’oggetto «trasferimento presso altra sede di lavoro» datata 11 ottobre. «La presente per informarla — si legge — che, in seguito al sopravvenire di oggettive esigenze aziendali di natura organizzativa e tecnicoproduttiva, è stato disposto il suo trasferimento dall’attuale sede di lavoro sita presso l’unità produttiva di Milano, a quella localizzata presso l’unità produttiva di Rende (Cosenza)». Cioè per continuare a lavorare, 64 pesone dovrebbero lasciare casa e famiglia e andare a mille chilometri di distanza entro le «ore 12» del 3 novembre.
Ma il primo effetto provocato da quelle lettere è stata la rivolta di venerdì mattina. Con l’appoggio e la tutela di Cgil e Uil, centinaia di lavoratori hanno scioperato e presidiato la palazzina dove ha sede Almaviva contestando la «rappresaglia» dei trasferimenti. «La lettera è arrivata a persone che, come me, devono avvalersi della Legge 104, cioè di alcuni benefici per assistere familiari con disabilità — racconta Simona Quatraro —, ma come possono pensare che si possa lasciare tutto e andare a mille chilometri per inseguire una busta paga tra 700 e mille euro?». L’esempio che molte colleghe indicano è quello di Maura: «Lei ha un bambino di 18 mesi, ma la lettera gliel’hanno mandata comunque». E poi ci sono i racconti di marito e moglie, entrambi dipendenti di Almaviva: lei, adesso, con sede di lavoro a Rende, lui che continuerà a prestare servizio in via dei Missaglia.
In questa paradossale migrazione verso sud per il lavoro, è coinvolto anche chi ha già dovuto compiere il viaggio in senso contrario: «Ero a Palermo — racconta sarcastico Vincenzo Aglio, 35 anni — e l’azienda a un certo punto non mi ha lasciato scelta o mi trasferivo a Milano o perdevo il lavoro. E adesso, dopo un anno e quattro mesi che sono qui mi dicono che dovrei rifare le valigie e trasferirmi in Calabria». Questa volta, però, la reazione è stata compatta. «I sindacati ci hanno aiutati moltissimo», dicono a proposito di Cgil e Uil, ma la rivolta è scatta dal basso, istintiva e consapevole. Riassunta dal no secco al referendum e dalla frase stampata su una maglietta: «Non vi regalo la mia dignità».
L’incontro L’azienda ha accolto l’appello di Calenda a un tavolo ministeriale già nei prossimi giorni