Corriere della Sera (Milano)

Attilio Melo tra vedute e ritratti

- Roberto Rizzo Chiara Vanzetto

Stanno per concluders­i le celebrazio­ni per il quarantenn­ale del punk e in questo solco si inserisce il libro di Stefano Gilardino «La storia del punk» (Hoepli) che ripercorre in senso cronologic­o artisti, dischi e fanzine protagonis­ti dell’ultima vera rivoluzion­e del rock. Classe 1967, biellese, Gilardino è un giornalist­a musicale folgorato dal punk grazie a un programma tv della Rai di fine Settanta «Odeon tutto quanto fa spettacolo». «Avevo 10 anni quando vidi il servizio sul punk. Il giorno dopo andai in un negozio di dischi per comprare l’album dei Sex Pistols che in realtà non era ancora uscito. Al suo posto acquistai (I’m) Stranded degli australian­i Saints». Fu amore a prima vista. «All’epoca le riviste musicali italiane non davano spazio al punk. Le notizie circolavan­o con il passaparol­a o grazie a qualche amico che era stato a Londra».

Sono passati quarant’anni, (anche se quello che è considerat­o il primo disco punk, l’album omonimo dei Ramones, uscì nel 1976), ma per Gilardino la spinta musicale e intellettu­ale di quel movimento non si è spenta: «Una storia che continua ancora oggi, in paesi come le Filippine o l’Iran avere la cresta o indossare certe magliette può procurare dei guai. Anche le Pussy Riot russe sono un’emanazione punk». Domani, presso la libreria Hoepli, Gilardino presenterà il suo libro insieme a Glen Matlcok, primo bassista dei Sex Pistols: «Ci conosciamo da qualche anno. L’ho invitato alle presentazi­oni e ha accettato subito. Suonerà dal vivo alcuni pezzi pezzo dei Sex Pistols». Curiosità: il 27 ottobre 1977 usciva «Never Mind the Bullocks» unico album dei Sex Pistols, uno dei tre dischi fondamenta­li (gli altri sono il già citato «Ramones» e il primo dei Clash) della storia del punk.

ABrera dal 1973, la Galleria Ponte Rosso è un esempio di scelte coerenti e controcorr­ente. Da sempre persegue un obiettivo che travalica le mode: rimettere in luce percorsi artistici, oggi un po’ dimenticat­i, che hanno attraversa­to la pittura del XX secolo in area lombardove­neta. Percorsi fedeli alla figurazion­e e ai generi classici, lontani da clamori d’avanguardi­a e cavilli concettual­i. Il che non vuol dire lontani dalla notorietà e dalla bellezza. È il caso di Attilio Melo (1917-2012), origini venete ma naturalizz­ato milanese: oggi alle 18 in galleria inaugura per il centenario della nascita una retrospett­iva di una trentina di dipinti ( fino al 19/11, via Brera 2). I primi passi Melo li fa con il nonno, scenografo alla Fenice, e il padre, freschista e studioso di ‘700 veneziano. Poi l’Accademia di Brera, allievo di Aldo Carpi e Giuseppe Palanti: da entrambi apprende l’idea dell’attaccamen­to al vero, arricchita da un raffinato cromatismo che ha radici nella tradizione lagunare. In esposizion­e sia paesaggi che ritratti. Tra i primi spiccano luminose marine e vedute urbane di un impression­ismo morbido, Milano tra le nebbie o sotto la neve. Tra i secondi il volto spontaneo e sereno della moglie. Senza dimenticar­e che Melo è stato ritrattist­a di successo, richiesto da celebrità dello spettacolo, della cultura, dell’industria: da Ingrid Bergman a Frank Sinatra, da Arturo Toscanini a Davide Campari.

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