Da Ezio Barbieri a Vallanzasca Il fascino ambiguo della Mala in mostra a Palazzo Morando
A Palazzo Morando in mostra foto, documenti e reperti di una stagione criminale che oggi appare quasi epica Ma la ligéra non è così lontana
In quella Milano dove il Piero Cavallero sparava ridendo, il tebano Angiolino Epaminonda e i suoi indiani facevano urlare i mitra, dove Francis Turatello indossava la pelliccia e Draga lo slavo beveva whisky nelle bische, c’era profumo di sangue e polvere da sparo. Non è nella nebbia, così noir come il Borsalino e il cappotto scuro del commissario Nardone, che si nasconde l’anima della Milano divorata dal male. Quella è semmai l’atmosfera di una narrazione che ha saputo trasformare il sanmani gue, gli sputi e la morte in un racconto fascinoso e nostalgico. Dove delinquenti, giornalisti, giudici, politici e prostitute sedevano allo stesso tavolo. Quello del Brera Bridge, la bisca più famosa di Milano. In un’immagine romantica, tra le note di Chet Baker e la malinconica «Estate» di Bruno Martino. In quelle strade dove, come scrisse Fabio Mantica sul «Corriere», «si respirava cordite».
I tempi che, dal bandito Ezio Barbieri portano alla ferocia di Renatino Vallanzasca, sono anni dei quali Milano ha con- servato una memoria «compassionevole». Dimenticando i rapimenti e il coprifuoco serale da via Larga a Porta Venezia, ignorando lo sbarco dell’eroina e della coca, chiudendo gli occhi davanti agli affari nascenti della mafia. E infine, relegando la mala (che non fu solo la rapina dei sette uomini d’oro di via Osoppo) a fatto quasi fisiologico rispetto al timore per il terrorismo.
Una storia raccontata nella mostra fotografica «Milano e la mala», che si inaugura do- a Palazzo Morando. Con i suoi eroi, da Nardone al maresciallo Oscuri, fino al superpoliziotto Achille Serra, e i suoi diavoli. Con i fotoreporter che fumano accanto ai cadaveri, le gazzelle dei carabinieri e le pantere della polizia. In quella Milano dove la mala è diventata un genere musicale insieme al noir letterario di Giorgio Scerbanenco.
Eppure c’è qualcosa di vero in quella narrazione. Ed è nell’accettazione fatalistica della morte in una città che per prima (con Rina Fort, la Belva di via San Gregorio) anticipò la spettacolarizzazione del male. O che semplicemente aprì le porte alla brama di quel «sesso, soldi e sangue» tanto caro oggi al voyeurismo televisivo del crimine. Capace di trasformare le nefandezze di boss drogati in un’Iliade del male.
Ma la Milano di malavita e ligéra non è poi così distante dalla città dei nove omicidi in nove giorni del ’99, dall’assassino cocainomane David Moneypenny, killer del gioielliere Bartocci, o dalla furia dello stragista di Rozzano Vito Cosco (2003). Ultimi figli di una città dove si spara meno, ma la criminalità fa più paura. Dove non c’è romanticismo della morte, come già non esisteva allora. Ma dove il male continua ad essere il più affascinante tra tutti i misteri.