Solfrizzi per Molière «Un’ironia senza tempo»
«Nel “Borghese gentiluomo” Molière ironizza sugli arrampicatori ma non risparmia i cortigiani vacui»
È la storia di un parvenu, ricco fin troppo ma privo della sola cosa che potrebbe renderlo davvero felice: un titolo nobiliare. Patente indispensabile per far parte di quella classe sociale cui tanto ambisce. Chissà che risate si erano fatti i duchi e i baroni che nel 1670 avevano assistito nei fastosi saloni del castello di Chambord alla prima di quella pièce di Molière, così assurda fin dal titolo, «Il borghese gentiluomo». Come poteva uno che i soldi se li era fatti da sè aspirare all’empireo della nobiltà? E quel monsieur Jourdain, così goffo, vanesio e pretenzioso... «Chissà...», sorride Emilio Solfrizzi, da stasera al Carcano nei panni infiocchettati dell’aspirante Gentiluomo. «Forse quei sorrisetti, quei ghigni iniziali, via via sbiadirono in smorfie indispettite. Riconoscendosi come vero bersaglio di una satira che li metteva ferocemente in ridicolo».
Molière non perdona. «Ironizza sulle debolezze sciocche di un arrampicatore sociale, ma staffila nel contempo i lacchè che cercano di trarre vantaggio dalla sua debolezza, coquanto me pure i cortigiani vacui, avidi di rapinargli i denari». Le quasi cento recite che lo spettacolo ormai si porta dietro, hanno permesso al suo protagonista di capire più a fondo le ragioni di quella smania aristocratica. «La sua follia nasce dall’ingenua fede che i nobili siano, in tali, esseri migliori. Che l’eleganza e il gusto siano iscritti d’ufficio nei loro titoli. Se solo potesse acchiapparne uno... Potrebbe svincolarsi dall’ignoranza grossolana che ha segnato la sua vita e avere finalmente accesso a quel mondo di bellezza e cortesia». L’illusione è così pervicace che nemmeno l’evidenza riesce a infrangerla. Accecato dal suo delirio, Jourdain non distingue più tra miseria e nobiltà. Assediato da ciarlatani e parassiti, si lascia turlupinare da tutti. Maestri di ballo e di musica (Lully era l’autore di quelle di scena), maestri d’ar- mi, di riverenze, di filosofia...
«Finché arriva l’uomo dei suoi sogni, quel Gran Turco nei cui panni pomposi si nasconde Cleonte, l’innamorato di sua figlia. Nel corso di un’esilarante cerimonia con tanto di mufti e dervisci, Jourdain sarà incoronato con la somma onorificenza di Mammalucco ad honorem». Un turbante sulla zucca che finalmente placherà le sue smanie gentilizie e consentirà anche le nozze dei due fidanzati. Ma in questo carnevale delle vanità, sorge una domanda: Jourdain è o ci fa? «Non è sciocco », lo difende Solfrizzi. «Probabilmente intuisce il raggiro, ma fa finta di niente per non distruggere il miraggio tanto vagheggiato. In questo è ridicolo e commovente insieme. Se a distanza di secoli ci fa ancora ridere è perché in lui vediamo rispecchiato l’edonismo folle della nostra epoca. Votata, anche più che ai tempi di Molière, al culto dell’apparire, popolata di nuovi ricchissimi, di vecchi profittatori. Pronti tutti a qualsiasi bassezza per un momento di visibilità assoluta».