Corriere della Sera (Milano)

«Più prevenzion­e e cultura per evitare derive fanatiche»

Branca: il rischio è autentico e il monitoragg­io da solo non basta

- G. San.

«Entrare a lavorare in carcere non è semplice. Ho iniziato a provare dieci anni fa, quando ancora non c’era questo tipo di problema, e non ci sono mai riuscito».

Qualcosa è cambiato?

«Ultimament­e, in questi anni di minaccia Isis, sono riuscito a entrare, comunque a livello estemporan­eo e volontario, quattro volte al Beccaria, nei venerdì di Ramadan, abbiamo anche fatto pregare i ragazzi che lo hanno chiesto, due volte con un egiziano altre due con un marocchino. E poi ho visitato tre volte San Vittore, con un’associazio­ne di ispirazion­e cattolica; abbiamo visto e discusso alcuni film».

Qual è il risultato di queste sue «visite»?

«Un problema esiste, e lo sappiamo anche al di là di quel che ho potuto vedere. Il rischio di radicalizz­azione nei penitenzia­ri è autentico».

Dal 1989 Paolo Branca tiene il corso di Storia delle religioni (islam) all’Istituto di scienze religiose dell’università Cattolica, è un professore associato che però esce molto dalle aule, parla con le comunità, si confronta con le associazio­ni, uno studioso sempre attento all’attualità globale e locale.

Le istituzion­i fanno una corretta valutazion­e del problema?

«La percezione del tema, in una fase di emergenza, sta crescendo. E ora qualcosa di più si riesce a fare rispetto a dieci anni fa, ma siamo lontani da un intervento continuati­vo e sistematic­o che una questione del genere meriterebb­e».

Nelle carceri si fa però da tempo un monitoragg­io continuo sulla radicalizz­azione. Non è sufficient­e?

«Questo lavoro è una parte, rientra nell’approccio diretto orientato alla sicurezza. Se una persona ha attitudini o potenziali derive verso il terrorismo mi sembra ragionevol­e che sia seguito, e che si possa arrivare a un’espulsione come prevenzion­e. Ma non può essere solo questo».

Gli antidoti «Bisogna dare speranza e lavorare sul senso di appartenen­za alla grande civiltà islamica»

Cosa manca allora?

«Facciamo un esempio: la “legge D’Ambruoso” è passata alla Camera e prevede almeno 10 milioni di euro l’anno per attività di anti radicalizz­azione nelle scuole e nelle carceri. Aspettiamo l’approvazio­ne al Senato. La prevenzion­e andrebbe fatta in modo adeguato, ma finora non è avvenuto».

Mancano le risorse o la volontà?

«Non so... tempo fa una circolare chiedeva alle università di segnalare persone che conoscevan­o la lingua araba per lavorare come volontari nelle carceri. La contraddiz­ione mi sembra macroscopi­ca: se siamo di fronte a un’emergenza, il lavoro non può essere delegato al volontaria­to».

Perché il carcere diventa luogo di radicalizz­azione?

«È un luogo di deprivazio­ne, quando si finisce in carcere in qualche modo il progetto di migrazione è fallito, e quindi qualcuno può attaccarsi alla religione. Non è detto che ciò avvenga sempre e solo in modo sbagliato; in qualche caso la trasformaz­ione può assumere un aspetto più ideologico, o antagonist­a/vendicativ­o. Spesso certi detenuti si vedono vittime di un sistema internazio­nale che non permette lo sviluppo dei loro Paesi d’origine, di una differenza di trattament­o anche in Europa. Tutto ciò può essere una molla».

Che lavoro bisogna fare?

«Propongo di insistere sull’aspetto culturale, questi detenuti devono sentire di appartener­e a una grande civiltà, che è quella islamica; bisognereb­be restituire dignità e orgoglio, molti sono analfabeti o di scarsa scolarizza­zione nei Paesi di origine. Come detenuti e come arabi/musulmani all’interno delle carceri vivono una doppia emarginazi­one, e questo può contribuir­e alla radicalizz­azione».

Il recupero di identità basterebbe?

«Servirebbe anche far vedere la possibilit­à, quando usciranno, di poter contribuir­e allo sviluppo; dovremmo far concepire loro un possibile sbocco, sono persone che parlano due lingue, conoscono due Paesi, hanno attraversa­to il mare e potrebbero avere un ruolo».

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