L’egiziana pronta alla missione suicida
Si era radicalizzata, scatta espulsione
Si era offerta di compiere un attentato suicida in Italia. Una ragazza egiziana di 22 anni, Famhy Fatma Ashraf Shawky, residente nel quartiere Gratosoglio, è stata espulsa lunedì dopo che sono stati accertati i suoi ripetuti contatti con rappresentanti dell’Isis ai quali aveva chiesto istruzioni per diventare una kamikaze. La ragazza, originaria di Giza, in Egitto, viveva insieme ai genitori e a tre fratelli minori, era in regola con il permesso di soggiorno, incensurata e disoccupata. Negli ultimi quattro anni aveva visibilmente cambiato abbigliamento e abitudini: dai vestiti occidentali che indossava abitualmente, era passata al niqab, il velo integrale.
« Vi ho mandato il documento». «Ecco le mie foto». Aveva bisogno di un passaporto falso. Insisteva. Parlava con un tale Abdallah Hasanayn Al-Najjar, uomo dell’Isis (non identificato). A lui s’era affidata per organizzare il viaggio, via Turchia, per unirsi al Califfato. Non considerava, probabilmente, che nella primavera scorsa il flusso dei foreign fighters era già intralciato; che lo «Stato islamico» stava perdendo terreno. E allora, non riuscendo ad «arruolarsi», chiusa nella sua stanza in un appartamento del Gratosoglio, la ragazza ha cambiato prospettiva.
«Posso fare qualcosa qui. Posso entrare in azione a Milano». E ancora: «Mi sento pronta».
Anche stavolta però, sui canali Telegram, la risposta dell’uomo dell’Isis è stata negativa: «Potrai fare qualcosa soltanto quando avrai la nostra autorizzazione».
È questo il senso delle conversazioni rintracciate dai poliziotti della Digos sul tablet di Fatma Ashraf Shawky Famhy, 22 anni, egiziana, in Italia dal 2013. Gli ultimi contatti risalgono alla fine di luglio scorso. Pochi giorni dopo gli investigatori sono entrati nella casa dove la ragazza viveva con i genitori (estranei alla sua radicalizzazione islamista) e i tre fratelli minori. Fatma Ashraf Shawky Famhy è stata espulsa nel cuore dell’estate, con un provvedimento d’urgenza del ministero degli Interni. E lavorando su tutto il materiale sequestrato nella sua stanza, nei tre mesi successivi i poliziotti della Digos, guidati dal dirigente Claudio Ciccimarra, hanno ricostruito l’intera storia di questa ragazza sprofondata, nel giro di 8-10 mesi, in un delirio islamista.
Prima che gli atti di inchiesta, questa trasformazione la raccontano le foto: all’inizio la ragazza ha i capelli raccolti in una coda, indossa abiti come quelli di qualsiasi altra giovane milanese e, quando si copre la testa, lo fa con un velo colorato, sorride, gli occhi truccati. Negli ultimi giorni, invece, i poliziotti la fotografano completamente coperta da un velo scuro, solo una fessura per gli occhi, i guanti per mani anche in piena estate. In Rete s’era scelta il nome Umm (madre di...)- Jlaybib: scelta singolare, un po’ anomala, perché Julaybib era sì un martire e compagno di Maometto, ma uno dei meno conosciuti, molto raro che il suo nome compaia nell’attuale rivisitazione jihadista.
L’informazione sulla ragazza arriva da una forza di polizia straniera che stava monitorando alcune reti estremiste poco prima dell’estate. La polizia inizia ad approfondire: intercetta i telefoni e i messaggi di Fatma e della famiglia. I poliziotti della Digos la seguono per due settimane, giorno e notte, ma di fatto stanno quasi sempre fermi sotto il suo appartamento. In quel periodo la ragazza esce solo due volte, per commissioni personali. A Milano non frequenta nessuno. I contatti con i familiari sono minimi. Quando inizia a parlare di un’azione in Italia, d’accordo con il ministero e la Procura, s i decide di intervenire.
I tre mesi successivi sono serviti per fare accertamenti su tutti i suoi contatti, verificare se avesse legami estremisti a Milano e in Italia. Al momento però non è emerso nulla. Fatma non lavorava. E la radicalizzazione sembra avvenuta tutta «in solitaria», nella sua stanza al Gratosoglio.