GENOVESINO A CREMONA
TORNANO NELLA CITTÀ D’ADOZIONE LE GRANDI OPERE DI LUIGI MIRADORI INTERPRETE DEL BAROCCO DEL ’600
Nonostante la mancanza di strade sicure e comodi mezzi di trasporto, anche nel passato gli artisti percorrevano l’Italia e l’Europa alla ricerca di incarichi. Per accaparrarseli non lesinavano colpi bassi agli avversari, compresi pestaggi e persino avvelenamenti, molto frequenti nel Seicento, come raccontano le biografie di Domenichino, Guido Reni o Caravaggio. La vita di Genovesino non registra quegli estremi, ma si limita a modesti spostamenti che tuttavia furono fondamentali per la sua carriera. Luigi Miradori, come precisava nella sua stessa firma «januensis», era nato a Genova forse nel 1605. Qui completò la formazione artistica, ma già nel 1632 si era trasferito nella Piacenza dei Farnese, città che non gli portò alcuna fortuna visto che in soli tre anni fu colpito da una catena di gravissimi lutti familiari senza rimediare committenze. Si rimise dunque in viaggio e questa volta gli bastò sposarsi di soli 40 chilometri a Est, a Cremona, per trovare finalmente la sua città d’elezione che in questi giorni gli dedica una mostra che lo equipara alle altre glorie civiche come Claudio Monteverdi, Antonio Stradivari e Janello Torriani.
Ma non è stato un riconoscimento facile. Infatti, mentre le fonti storiografiche liguri seicentesche hanno ignorato il compatriota esule, nelle cronache cremonesi non mancano le menzioni. Tuttavia fu l’abate Luigi Lanzi, al soldo del granduca di Toscana, a tirarlo fuori dall’anonimato locale dedicandogli poche righe nella sua Storia pittorica dell’Italia redatta alla fine del Settecento. Solo nel Novecento, però, verrà finalmente restituita al pittore la dignità artistica inseguita tutta la vita.
Fu proprio una giovane cremonese, promettente allieva di Roberto Longhi, a dedicargli la tesi di laurea nel 1949: quella
Mina Gregori diventata poi una delle più autorevoli storiche dell’arte internazionali.
Da allora gli studiosi hanno continuato a scavare nella vita e nel catalogo del pittore e la mostra rappresenta dunque l’occasione per fare il punto delle ricerche. Curata da Francesco Frangi, Valerio Guazzoni e Marco Tanzi, raccoglie pale d’altare provenienti dalle chiese lombarde e tele da musei e collezioni private che riflettono la varietà dello stile e dei soggetti frequentati dall’artista. Una di queste è Il riposo durante la fuga in
Egitto, terminata nel 1651 per la chiesa di Sant’Imerio. Un dipinto che, secondo Vittorio Sgarbi, non teme il confronto con «il più bel Riposo della storia dell’arte, quello di Caravaggio alla Galleria Doria Pamphilj». I 50 dipinti esposti sono distribuiti nel breve itinerario fra il museo Ala Ponzone, la magnifica Cattedrale (con i celeberrimi affreschi del Pordenone, capolavoro del Manierismo cinquecentesco) e il palazzo del Comune dove si può ammirare il telero con la Moltiplicazione dei pani e dei
pesci, la principale commissione pubblica ricevuta dal Genovesino. Non mancano le opere di soggetto profano, fra le quali le Vanitas e i ritratti, il più noto e superbo dei quali immortala in compagnia del suo cane il fanciullo Sigismodo Ponzone, erede di una importante famiglia protettrice del Genovesino.
Ben inserito fra i notabili locali, il pittore riuscì a collocare i suoi dipinti sugli altari delle chiese e nelle collezioni delle famiglie patrizie così numerosi che per vent’anni, fino alla morte del 1656, rimase il protagonista incontrastato del barocco locale. A prendere il Miradori sotto la sua protezione (conferendogli stipendio e carrozza con staffiere), fu anche il governatore spagnolo don Alvaro de Quiñones. Fu così che, nato in un’orgogliosa Repubblica, Genovesino morì da cortigiano.