Dentro la giustizia
Un giudice e un mafioso in carcere si confrontano sul senso dell’ergastolo
Torino, 1985. Si celebra un maxiprocesso alla mafia catanese che dura due anni. Tra gli imputati c’è Salvatore, uno dei capi a dispetto della giovane età, con alle spalle una scia di morti ammazzati e di azioni criminose. Viene condannato all’ergastolo. Presidente della Corte di Assise era Elvio Fassone. «In un momento di colloquio fuori udienza», ricorda il magistrato, «mi disse: “se suo figlio nasceva dove sono nato io, a quest’ora forse era lui nella gabbia, e se io nascevo dove è nato suo figlio, forse a quest’ora ero un bravo avvocato”. In quella frase vidi fotografata la lotteria della vita, della quale lui aveva estratto un biglietto sbagliato; per questo, subito dopo la pronuncia della sentenza di condanna, gli scrissi una lettera, che non voleva essere consolatoria ma solo un invito alla dignità e alla speranza, anche nella sua condizione. Alla lettera allegai un libro della mia raccolta personale, perché vedesse che i libri sono davvero compagni della nostra esistenza». Da quel gesto nasce una corrispondenza tra i due, destinata a durare ventisei anni, e un libro edito da Sellerio. Da quel libro, che non è un romanzo né un saggio, bensì una riflessione sul (non) senso dell’ergastolo in relazione al dettato costituzionale sul valore riabilitativo della pena e al percorso umano di qualsiasi condannato, ha preso vita «Fine pena: ora», produzione del Piccolo Teatro, in cartellone al Grassi da martedì, con Sergio Leone e Paolo Pierobon protagonisti, diretti da Mauro Avogadro.
A pochi giorni dalla morte di Totò Riina, una coincidenza che rende di attualità ancor più bruciante l’illuminato pensiero «neo pariniano» del giudice Fassone. A Paolo Giordano, autore di best seller come «La solitudine dei numeri primi», il compito di trasformare quel libro in una pièce teatrale. «Una storia bellissima che fa pensare a Dostoevskij», afferma lo scrittore. «Ho pensato di ripartire dalle lettere che, con un atto di fiducia, il giudice Fassone mi ha dato la possibilità di leggere. A teatro Salvatore e il suo giudice si parlano “fuori dal tempo”, o per meglio dire, come “dimentichi del tempo”. Si trovano entrambi nella stessa stanza, sullo stesso palcoscenico, eppure sono costantemente separati, il giudice nella propria casa e Salvatore dentro la sua cella, insieme e tuttavia da soli». In quei ventisei anni le loro vite scorrono parallele: Salvatore affronta l’ergastolo tra la speranza di una riabilitazione e i tormenti del 41 bis, tra un percorso di emancipazione culturale (prende la licenza media inferiore e superiore) e un tentativo di suicidio; il giudice fa carriera come magistrato e come politico fino alla pensione, sempre interrogandosi sul senso della pena carceraria e del fine pena: mai. Perché, conclude, «Nessuno tocchi Caino, ma non dimentichiamoci di Abele. È necessario trovare una conciliazione fra i due poli del dolore. Giustizia non è aggiungere dolore a dolore, ma cercare di eliderlo: hai fatto del male, ora cerca di rimediare facendo del bene alla comunità».
Due gli incontri a corredo dello spettacolo al Chiostro Nina Vinchi (via Rovello 2, ore 17, ingr. libero): «Fine pena: ora. Dal Romanzo allo spettacolo » con Paolo Giordano, Mauro Avogadro e gli attori (22 novembre) e, moderato da Piero Colaprico, «Fine pena: ora» con Salvatore Scuto, Lucia Castellano e Don Gino Rigoldi (29 novembre).
Paolo Giordano «È una vicenda alla Dostoevskij. I due protagonisti sono insieme ma da soli»